Una nuova corsa all’oro sta avvenendo in fondo al mare. In Papua Nuova Guinea la Chiesa e gran parte della società civile si sono opposte alla prima miniera subacquea. L’arcivescovo di Rabaul Francesco Panfilo spiega perché
In Papua Nuova Guinea il governo ha concesso una licenza ventennale a una multinazionale canadese, la Nautilus Minerals Inc., per sfruttare un tratto di trenta chilometri nel mare di Bismarck, a una profondità di 1.600 metri. L’obiettivo della compagnia è estrarre minerali dal fondo dell’Oceano. Ma la popolazione nelle otto province dove la Nautilus condurrà questi esperimenti non è stata consultata e i dubbi sull’impatto ambientale di queste operazioni non sono stati chiariti. A monsignor Francesco Panfilo, arcivescovo di Rabaul, abbiamo chiesto perché la chiesa cattolica si è affiancata alla società civile nel contestare questa operazione di “seabed mining”.
Innanzitutto cos’è il Seabed Mining?
Monsignor Francesco Panfilo: «È il tentativo di estrarre minerali (mining) dal profondo del mare (seabed). Si tratta di una sorta di nuova corsa all’oro. In senso letterale… è soprattutto l’oro che alcune compagnie minerarie vorrebbero portare a galla, oltre al rame, lo zinco, l’argento e altri minerali preziosi. Per l’estrazione servono grandi macchine con denti rotanti in grado di frantumare la roccia sul fondale. C’è però molta incertezza su ciò che potrebbe accadere all’ecosistema marino, che a quelle profondità è particolarmente delicato e che secondo molti scienziati risulterebbe gravemente danneggiato dalle trivellazioni e dalla frantumazione delle rocce. Associazioni ambientaliste come il WWF si sono rivolte alle Nazioni Unite facendo presenti i rischi di queste operazioni. E anche alcuni governi hanno dichiarato preoccupazione».
Cosa sta accadendo in Papua Nuova Guinea?
«Il governo ha concesso una licenza ventennale a una multinazionale canadese, la Nautilus Minerals Inc., per sfruttare un tratto di trenta chilometri nel mare di Bismarck, a una profondità di 1.600 metri. Il progetto, ancora in fase di ricerca, si chiama “Solwara 1” e, se andasse in porto, sarebbe il primo progetto di estrazione mineraria sottomarina al mondo. Sia il mare che le coste sono stati divisi in settori interessati dalle esplorazioni, lungo linee che attraversano aree di pesca, siti sacri, percorsi di navigazione e persino confini consuetudinari senza che gli abitanti ne siano stati informati. Memore di vicende simili avvenute in passato, la società civile teme che questo progetto porterà più danni che benefici. E si chiede perché una compagnia canadese non possa fare questo tipo di esperimenti in Canada, invece che in Papua Nuova Guinea».
Qual è la posizione della Chiesa?
«È contraria per diversi motivi. Innanzitutto il governo non ha consultato la popolazione nelle otto province dove la Nautilus condurrà questi esperimenti. Come ho accennato, la gestione di altri grossi progetti – come la miniera di Ok Tedi oppure la coltivazione di olio di palma su larga scala – non ha portato i benefici che la gente si aspettava. Inoltre non ci sono affatto certezze sul fatto che queste operazioni in fondo al mare non danneggino la vita sotto gli oceani. E ad avere seri contraccolpi potrebbe essere anche il settore della pesca, della quale vivono molte famiglie qui in Papua Nuova Guinea. La Conferenza episcopale, in sinergia con la Caritas, si è apertamente opposta a “Solwara 1”, in rete con diversi gruppi e associazioni della società civile sia locali che internazionali».
La Laudato Si’, l’enciclica sul creato di papa Francesco, vi ha ispirato in questa campagna?
«L’enciclica sul creato non menziona il problema del seabed mining, ma al termine del paragrafo 41 il Papa scrive: «Qualunque azione sulla natura può avere conseguenze che non avvertiamo a prima vista», e che «certe forme di sfruttamento delle risorse si ottengono a costo di un degrado che alla fine giunge fino in fondo agli oceani». A mio parere, però, è ancora più importante quello che il Papa scrive al paragrafo 185: “In ogni discussione riguardante un’iniziativa imprenditoriale ci si dovrebbe porre una serie di domande, per poter discernere se porterà a un vero sviluppo integrale: Per quale scopo? Per quale motivo? Dove? Quando? In che modo? A chi è diretto? Quali sono i rischi? A quale costo? Chi paga le spese e come lo farà?”. Purtroppo il governo della Papua Nuova Guinea non sembra essersi posto queste domande».
Quali sono gli obiettivi della campagna contro il seabed mining?
«L’obiettivo ultimo è che il progetto non prosegua. Al momento qui in Papua Nuova Guinea sono arrivate tre navi attrezzate per fare delle ricerche, ma non hanno iniziato l’opera, e probabilmente non inizieranno. Almeno è quanto ci auguriamo, dal momento che le proteste della popolazione e l’opposizione della società civile sono state molto forti. Durante un raduno avvenuto alla fine di settembre, la Conferenza Episcopale ha deciso di invitare il membri del Parlamento cattolici per presentare loro l’insegnamento sociale della Chiesa. Speriamo che sia l’inizio di qualcosa di buono per il futuro della nazione. Nel frattempo, insieme alle altre organizzazioni della società civile continueremo a stare accanto alle comunità locali sulle coste e le isole interessate da questo progetto, in modo che la loro voce sia ascoltata».