Nominato premier lo scorso aprile, il leader oromo ha avviato una serie di riforme all’interno del Paese e si è distinto per l’attivismo internazionale. Sarà l’inizio di un nuovo corso per l’Etiopia?
In un’Africa ancora troppo spesso paralizzata da insulsi personaggi politici, corrotti e cleptomani, interessati unicamente a mantenersi al potere – a grave detrimento dei loro popoli – l’arrivo sulla scena politica di Abyi Ahmed Ali, 42 anni, primo ministro dell’Etiopia dallo scorso 2 aprile, ha suscitato un moto nuovo di speranza e grandi aspettative. Certo, per il momento si tratta essenzialmente di un esercizio di fiducia preventiva che molti – all’interno come all’esterno del Paese – auspicano si traduca in un reale processo di democratizzazione e di sviluppo del Paese che possa essere contagioso anche per altri contesti politicamente “incancreniti”.
I primi passi sono incoraggianti. A cominciare dalla stretta di mando con il vicino-nemico, il presidente eritreo Isaias Afewerki, che mette fine a vent’anni di conflitto latente tra i due Paesi dopo due anni di guerra vera e propria combattuta lungo il confine. Etiopia ed Eritrea si contendevano un pezzo di terra sassoso nei pressi della cittadina di Badme, che è costato la vita ad almeno 80 mila uomini e che ha provocato due decenni di tensioni, di cui ha largamente profittato il dittatore Afewerki per imporre un regime liberticida, segnato dalla violazione sistematica di tutti i diritti umani più fondamentali e dalla fuga di decine di migliaia di giovani disposti a tutto per di andarsene. «War is over! La guerra è finita», ha dichiarato Abyi Ahmed, recandosi lo scorso 8 luglio nella capitale eritrea, dove ha firmato una dichiarazione che pone fine allo “stato di conflitto” tra i due Paesi. Una dichiarazione che si vorrebbe sentire anche in molte altre parti dell’Africa, dove si trascinano varie situazioni di crisi che frenano gravemente lo sviluppo del continente.
Nella stessa Etiopia, del resto, non tutto funziona come dovrebbe. Nonostante le grandi aperture del nuovo primo ministro nei confronti dei prigionieri politici e degli oppositori, nonché della sua stessa etnia, gli oromo, per troppo tempo discriminata e marginalizzata – e per questo in rivolta dal 2015 -, diverse regioni del Paese continuano a essere segnate dall’instabilità. Nel sud del Paese, una nuova ondata di violenze ha provocato più di un milione di sfollati che, con l’arrivo della stagione delle piogge, rischia di trasformarsi in una nuova emergenza umanitaria. Nell’est, invece, nella Regione Somali lo scorso agosto ci sono stati scontri e violenze che hanno preso di mira anche edifici e personale della Chiesa, con morti, feriti e almeno una decina di strutture religiose distrutte. Lo stesso primo ministro è sopravvissuto a un attentato lo scorso 23 giugno durante un comizio, quando una granata è esplosa uccidendo una persona e ferendone almeno 150. Si sospetta che dietro ci sia lo zampino di alcuni funzionari delle forze di sicurezza, che temono che il loro potere venga eroso dal nuovo corso. È quanto teme anche il Fronte popolare del Tigrai, partito che rappresenta i tigrini del nord, una minoranza del 6% circa della popolazione, che è riuscita sino a ora a rimanere saldamente al potere.
Abyi Ahmed sta dunque rompendo molti equilibri e tante complicità legate non solo alla politica, ma anche al controllo dei settori chiave dell’economia. A fine agosto la polizia ha sequestrato – e non è la prima volta – 10 milioni di dollari e migliaia di armi e pallottole (circa 80 mila) contrabbandati illegalmente nel Paese attraverso i confini porosi di Sudan e Gibuti. Soldi e armi probabilmente destinati a fomentare ulteriore insicurezza.
Il premier sa bene che solo garantendo stabilità potrà attrarre nuovi investimenti dall’estero e consolidare una crescita economica che in questi ultimi anni è stata tra le più alte al mondo: secondo la Banca Mondiale si è confermata all’8,3% nel 2017. Questa crescita del Pil, tuttavia, non si è tradotta automaticamente in migliori condizioni per la gran parte della popolazione che vive spesso in condizioni di povertà estrema. Il Paese deve fare i conti anche con un enorme debito estero e con una disoccupazione giovanile che si attesta ufficialmente attorno al 17%.
Il nuovo governo etiope, tuttavia, è guardato con favore sia da altri Paesi africani che dalle potenze europee e asiatiche (Cina in testa), nonché dagli Stati Uniti, che già in passato avevano cercato di giocare una partita su più fronti nel Corno d’Africa – risultata poi grandemente fallimentare -, appoggiandosi agli allora giovani leader Afewerki per l’Eritrea e Zerawi per l’Etiopia.
Oggi il Paese può certamente fare la differenza anche rispetto alle missioni di peacekeeping nel continente a cui già partecipa, nonché nella lotta contro il gruppo terroristico Al Shaabab presente in Somalia. L’Europa, dal canto suo, spera di trovarvi un alleato nella strategia di controllo dei flussi migratori. Il Paese ospita attualmente 930 mila rifugiati (in Italia sono 160 mila) suddivisi in 26 campi. Il più grande, quello di Gambela, ne ha quasi 430 mila. Provengono principalmente da Sud Sudan, Somalia, Eritrea e Sudan. Anche questa una grande sfida per il neo premier.
Chi è
Abiy Ahmed Ali è nato il 15 agosto 1976 a Beshasha, nella Regione dell’Oromia. Appartiene all’etnia maggioritaria del Paese, ma anche la più marginalizzata. Padre musulmano e madre cristiana, ha fatto una testi di dottorato sulla risoluzione dei conflitti interreligiosi. È stato militare sino a raggiungere il grado di tenente colonnello. Dopodiché ha creato e diretto l’agenzia governativa responsabile della sicurezza informativa. È stato ministro della Scienza e della Tecnologia nel precedente governo. Ed è leader dell’Organizzazione democratica del popolo oromo, uno dei quattro partiti che compongono la coalizione di governo. È primo ministro dell’Etiopia dal 2 aprile 2018.