Il 7 ottobre 2023 Maoz Inon perse i genitori nell’attacco terroristico in Israele. Un anno dopo, è tra i protagonisti del movimento che chiede il rilancio del dialogo tra i due popoli. La sua testimonianza, insieme a quella di Aziz Abu Sarah, attivista palestinese, sarà al centro della serata del 3 ottobre (ore 18.00) al Pime di Milano, in occasione del primo incontro dell’Ottobre missionario dedicato al “Vangelo della pace”
«Quella mattina, mentre ero ancora a letto, ho controllato i messaggi sul cellulare. Nella chat di famiglia, papà aveva scritto che nella loro comunità agricola di Netiv HaAsara era suonata la sirena di allarme e che lui e la mamma si erano rifugiati nella stanza sicura. Non mi sono preoccupato troppo perché, per quanto strano possa sembrare, lì è piuttosto normale». Maoz Inon lo sa bene: anche lui da ragazzino ha vissuto in quel moshav nel Nord-est del Negev, il villaggio israeliano più vicino alla Striscia di Gaza, un centinaio di metri appena dalla città palestinese di Beit Lahiya. Allora la situazione era tranquilla, ma negli ultimi due decenni i lanci di razzi provenienti da oltre il massiccio muro di cemento armato che separa le due parti sono stati frequenti.
«Sono sceso a fare il caffè – ricorda Maoz – e intanto ho acceso la tv e ho sentito dell’invasione di Hamas in diverse comunità israeliane sul confine. Ho chiamato papà – erano circa le 7 e mezzo – e mi ha raccontato che dal rifugio sentivano sirene e spari. Gli ho detto di stare tranquillo, di salutare la mamma e che ci saremmo sentiti presto. Abbiamo riagganciato. Poco dopo, controllando gli aggiornamenti su una pagina Instagram palestinese, ho visto le recinzioni attorno a Gaza tirate giù dai camion dei miliziani e ho riconosciuto alcuni posti che conosco molto bene. Così, ho telefonato di nuovo a papà, ma questa volta non c’è stata risposta. All’inizio, anche se temevo il peggio, speravo che ci potessero essere problemi di rete, o un guasto elettrico. Ho chiamato le mie tre sorelle e anche mio fratello minore, che vive a Londra, e tutti abbiamo provato e riprovato a metterci in contatto con i nostri genitori e con i loro vicini, ma nessuno ha risposto. A quel punto, ci siamo riuniti tutti a casa di mia sorella, con i nostri partner e i bambini, e siamo rimasti lì, cercando di fare qualche telefonata, di farci coraggio e di non guardare troppo il telegiornale. Alle cinque del pomeriggio, finalmente, mio cognato è riuscito a parlare con l’addetto alla sicurezza del moshav: la casa dei miei genitori era stata ridotta in cenere da un razzo, un colpo ravvicinato, e dentro erano stati trovati due cadaveri carbonizzati».
Venti persone, su 900 residenti, sono state uccise sabato 7 ottobre 2023 a Netiv HaAsara. Alcuni miliziani di Hamas hanno attraversato con il parapendio il muro di separazione su cui, dalla parte israeliana, era stato realizzato il mosaico collettivo dal titolo “Path to Peace”, “sentiero verso la pace”. Tra i morti c’erano Yakovi e Bilha Inon, 78 e 76 anni rispettivamente. «Il fuoco ha reso il corpo di mia madre impossibile da identificare ufficialmente», riesce a dire Maoz. «Quel giorno ho perso così tanti dei miei amici d’infanzia, i loro genitori, i loro figli… mi sentivo affondare in un oceano di sofferenza e dolore. Ero a pezzi».
Maoz Inon, 49enne dagli occhi chiari e un accenno di barba brizzolata, oggi vive con la moglie e i loro tre figli – due maschi e una ragazzina – a Binyamina, a sud di Haifa, ma è nato e cresciuto nel kibbutz Nir Am, vicino a Sderot, per poi trasferirsi, a 14 anni, a Netiv HaAsara. «I miei nonni erano pionieri sionisti, immigrati dall’Europa dell’Est nella Palestina del mandato britannico negli anni Trenta del Novecento. Erano arrivati qui con l’idea di costruire una patria sicura per il popolo ebraico. Io, anche se da bambino ero abituato ad ascoltare i racconti dei tanti conflitti attraverso cui era passata la nazione, ho avuto un’infanzia molto serena e tranquilla».
A diciott’anni, arrivò la cartolina di reclutamento per il servizio militare. «Dovetti partire per tre anni, il periodo più duro della mia vita. Ne uscii molto provato». Nel frattempo, però, il giovane aveva conosciuto la ragazza che poi sarebbe diventata sua moglie. «Fu un raggio di sole in quel momento buio. Con lei, subito dopo il congedo, partii per un viaggio zaino in spalla intorno al mondo. Per un anno girammo tra la Nuova Zelanda, l’Australia e il Nepal. Al ritorno, ci stabilimmo a Tel Aviv e dopo alcuni anni decidemmo di mettere su famiglia. Prima, però, volevamo fare un altro viaggio, questa volta per conoscere meglio la nostra terra». La coppia optò per l’Israel National Trail, un trekking di quaranta giorni che collega il Paese dal Nord, vicino al Libano, fino al Mar Rosso.
«Per la prima volta ci siamo resi davvero conto dell’enorme eredità storica e di fede custodita da questa terra. Abbiamo attraversato comunità ebree e arabe, città e villaggi, e abbiamo cominciato a sognare una rete di ostelli lungo questo itinerario per rendere più accessibile la Terra Santa ai giovani escursionisti. Senonché, alla soglia dei trent’anni, abbiamo realizzato che non avevamo un solo amico palestinese e non conoscevamo quasi niente sulla cultura dei nostri vicini: non sapevamo il significato del mese sacro islamico di Ramadan, né la differenza tra le festività di Eid al-fitr e Eid al-Adha, non avevamo idea di dove fosse nato Gesù e non avevamo mai sentito parlare dell’Annunciazione… Così ci siamo detti: apriamo un ostello in una comunità palestinese, e abbattiamo il muro di ignoranza e paura che, proprio come i muri fisici, ci circonda. Costruiamo un ponte attraverso il turismo».
Nel 2005, per la prima volta in vita sua, Maoz mise piede a Nazaret, la più grande città araba d’Israele, dove i palestinesi costituiscono il 70% dei 77 mila abitanti. «Scoprii un luogo antico e splendido, ricco di chiese, monasteri, moschee e soprattutto di bellissime persone. Il nucleo vecchio, tuttavia, era stato praticamente abbandonato dai residenti, in seguito alla Seconda intifada, a un progetto di riqualificazione durato troppi anni e alla tendenza dei giovani, comune un po’ dappertutto, a lasciare i centri storici in favore di aree nuove con più servizi». Nel dedalo di quelle stradine, però, l’aspirante imprenditore si imbatté in un gioiello: una dimora dell’Ottocento con i pavimenti in marmo, i soffitti piastrellati e i cortili sormontati da archi, che stava andando in rovina. Fu una folgorazione. Contattò i proprietari, la famiglia Azar, e con non poche insistenze li convinse a imbarcarsi in un progetto che sembrava folle: «Una partnership mista, per ridare nuova vita al cuore antico di Nazareth. Nonostante i sospetti di tanti vicini arabi, che non si fidavano di uno sconosciuto ebreo, pochi mesi dopo aprì i battenti la Fauzi Azar Inn, la prima guest house della città vecchia. Ed è stato un successo».
Molta acqua è passata sotto i ponti da quella prima avventura. Con lo stesso misto di passione e fiuto per le opportunità, in questi anni l’ex giovane sognatore ha dato vita a una serie di iniziative, tutte incentrate sull’idea di un turismo sostenibile – anche dal punto di vista economico – e in grado di connettere comunità diverse: dal Jesus Trail, 65 chilometri di cammino da Nazaret a Cafarnao lungo i luoghi della vita di Gesù, fino alla catena degli “Ostelli di Abramo” che, da Tel Aviv a Gerusalemme, da Nazaret a Eilat, offrono ai loro ospiti tour con la possibilità di accedere a un racconto plurale della storia e del presente. E, tra gli innumerevoli partner e collaboratori palestinesi incontrati in due decenni, tanti si sono trasformati per Maoz in veri amici. Tutti loro erano presenti, distrutti dal dolore, alla veglia funebre organizzata per Bilha e Yakovi Inon dopo la carneficina di Hamas.
«Mio padre era un agronomo e faceva il contadino. Un lavoro difficile. Ricordo che un anno il suo raccolto andò perso per la carestia, l’anno seguente fu distrutto dalle inondazioni, un’altra volta ci fu un’invasione di parassiti. E ogni volta, alla fine di queste stagioni devastanti, papà mi diceva: “Maoz, l’anno prossimo preparerò ancora il terreno e coltiverò di nuovo il mio campo, perché l’anno prossimo sarà migliore”».
Bilha, invece, era un’artista: «Negli ultimi anni aveva cominciato a dipingere mandala. Ne aveva prodotti un’infinità, ma l’unico che mi aveva regalato riportava questa scritta: “Possiamo realizzare tutti i nostri sogni se abbiamo il coraggio di inseguirli”. Nella mia vita ho inseguito e realizzato molti sogni: il prossimo è la pace tra israeliani e palestinesi». Poche notti dopo la morte dei suoi genitori, nel sonno reso inquieto dal dolore, Maoz ha visto se stesso: «Piangevo, e una grande folla, l’intera umanità, piangeva con me. Le lacrime ci solcavano le guance e scendevano sui nostri corpi, feriti dalla guerra. E li guarivano. E poi scendevano ancora, fino al suolo, portando via il sangue e rendendo di nuovo la terra bellissima e brillante. Lì, si apriva un sentiero: era il sentiero della pace. Mi sono svegliato tremando, e ho capito che quella era la via che dovevo seguire, non la vendetta ma la riconciliazione.
Ho iniziato a incontrare persone impegnate per il dialogo, palestinesi, israeliani, attivisti internazionali, e sto imparando cose fondamentali. La prima è che la speranza è un’azione, non è qualcosa che nasce da sola ma va creata. Come? Questa è la seconda lezione: va fatto insieme, con altre realtà con cui elaborare una visione condivisa di futuro. Perché possiamo perdonarci a vicenda per ciò che abbiamo fatto nel passato e persino per ciò che avviene nel presente, ma non potremo perdonarci se non lavoreremo per costruire un avvenire in cui sia possibile incontrarci».
La testimonianza di Maoz Inon, insieme a quella dell’attivista palestinese Aziz Abu Sarah, sarà tra le voci proposte durante il primo appuntamento dell’Ottobre missionario al Centro Pime di Milano, giovedì 3 ottobre (ore 18), quando sarà presentato il libro di Chiara Zappa, “Gli irriducibili della pace” sui protagonisti del dialogo in Israele e Palestina. Interverrà la giornalista Anna Momigliano. Il ciclo, dedicato al tema “Il Vangelo della pace”, continuerà mercoledì 9 (ore 21) con l’incontro “Dialogare sempre: l’eredità di Paolo Dall’Oglio” (cfr. pag. 37), a cui interverrà padre Jihad Youssef, superiore della Comunità monastica di Deir Mar Musa.
Sabato 19 (ore 16), il vescovo di Kalookan Pablo Virgilio David parlerà di “Filippine: frontiere della missione”, raccontando il suo impegno per la giustizia in una terra lacerata da conflitti sociali e religiosi. Alle 18, Messa nel Teatro Pime, animata dalla comunità filippina di Milano.
Giovedì 24, infine, il teatro Pime ospiterà (ore 21) “Pierre e Mohamed”, monologo teatrale con accompagnamento musicale ispirato all’amicizia fra Pierre Claverie, vescovo martire, e Mohamed Bouchikhi, il suo giovane autista musulmano, assassinati insieme in Algeria nel 1996.