Fare felici gli infelici

Fare felici gli infelici

In occasione della “Festa del Calesse”, che celebra l’arrivo dei primi alunni nel seminario per le missioni estere di Milano, il 30 luglio 1850, nella sede di Saronno, una riflessione sul senso della missione tra passato e presente

Il giorno 30 luglio 1850 Angelo M. Ramazzotti accompagna i primi alunni del Seminario per le missioni estere di Milano, Giovanni Mazzucconi e Carlo Salerio, dalla sede degli oblati di Rho alla casa del Seminario presso la chiesa di San Francesco a Saronno. Lungo il viaggio li intrattiene con pensieri di fede e li consola dicendo: “Noi andiamo ora a Saronno in un misero calesse, e forse ci precedono a schiere gli angeli del Signore”.

Questa è una citazione ben conosciuta dai missionari del Pime, o perlomeno da quelli della ‘vecchia scuola’. Ricordo con partecipazione che a Hong Kong padre Francesco Conte ogni anno organizzava, presso la Pime House, la ‘festa del calesse’. La citazione viene dalla memoria scritta da padre Giacomo Scurati in occasione della morte di Salerio.

Torniamo a quel fatidico 30 luglio: giunti alla sera, i nostri trovano ad attenderli il direttore Giuseppe Marinoni, alcuni preti della zona, inclusi alcuni aspiranti missionari già presbiteri, Alessandro Ripamonti, Paolo Reina, il primo missionario di Milano a mettere piede a Hong Kong nel 1858; e due seminaristi: Francesco Pozzi e Antonio Marietti, futuri vescovi in Bengala.

Dopo alcuni mesi arriveranno anche Timoleone Raimondi, primo vescovo a Hong Kong, Angelo Ambrosoli (terminò la sua carriera missionaria a Sydney) e il catechista (fratello, diremmo oggi) Giuseppe Corti. Nel 1851 viene ammesso come catechista anche Luigi Tacchini.

Il giorno dopo la celebrazione della Messa, nella cappella interna di casa di Ramazzotti, fu affidata a Giovanni Mazzucconi, il più giovane del gruppo.

Il Vangelo riportava il seguente brano: “Chi ama suo padre e sua madre più di me non è degno di me… Chi vorrà salvare la sua vita la perderà e chi perderà la sua vita per amore mio la salverà”. Leggendo queste parole Mazzucconi si commosse e pianse.

Le Missioni estere di Milano nascono così: con una Eucarestia celebrata senza solennità, in una casa privata, con le lacrime del futuro martire e beato Mazzucconi. Il quale però sapeva anche ridere ed era un ragazzo felice. E torneremo sul tema della felicità. Egli scrisse ad un amico: “Qui si prega, si studia, si ride. Te lo confesso di cuore, mio carissimo, dal primo giorno che passai in questa casa, non sentii più che un solo dovere verso Dio: quello di ringraziarlo molto”.

I primi due mesi, fino a quando Ramazzotti deve trasferirsi a Pavia, vengono dedicati alla stesura collettiva delle regole del nuovo Istituto, chiamate “Proposta di alcune massime e norme per l’Istituto delle Missioni Estere”. Si tratta di un esercizio di scrittura collettiva: tutti vi parteciparono.

Don Lorenzo Milani 110, anni dopo, promosse la scrittura collettiva come esercizio virtuoso di formazione, corresponsabilità e emancipazione, producendo con i ragazzi di Barbiana la Lettera ai giudici e la Lettera ad una professoressa.

Commentando questo testo, poi firmato da tutti i vescovi lombardi, il card. Carlo Maria Martini scrisse che esso “esprime la teologia della Chiesa locale e la sua missionarietà in termini che precorrono il Vaticano II”. È un esercizio di sinodalità anticipata: i vescovi sottoscrivono un testo preparato collettivamente da giovani aspiranti.

Dopo un anno, visto l’aumento di candidati, Marinoni trova una nuova sede a Milano, nel piccolo santuario di San Calocero, dove l’Istituto rimane fino al 1906 quando viene terminata la costruzione della attuale ‘casa madre’ in via Monte Rosa 81.

Torniamo alla teologia che, secondo Martini, percorre il Vaticano II.

Quando Angelo Ramazzotti e i suoi primi alunni diedero inizio all’Istituto delle Missioni Estere di Milano non esisteva una riflessione teologica sistematica circa le questioni missionarie, né lui ne ha proposto una sua.

Le motivazioni fondamentali dell’attività missionaria nel 19mo secolo sono sintetizzabili in tre idee. L’indole universale della religione cristiana e il suo ruolo di elevazione civile (idea diffusa soprattutto nel mondo protestante, teorizzata Gustav Warneck); la conversione delle persone non cristiane (allora detti pagani, infedeli o infelici); la fondazione di nuove chiese. Queste motivazioni, soprattutto la seconda e terza, sono alla base dell’attività missionaria fino al Concilio Vaticano II, condivise dai missionari del Pime.

Missione e civiltà

La motivazione civilizzatrice delle missioni ottocentesche sono oggi sottoposte, per altro giustamente, dalla critica degli studi post-coloniali. Tracce di questa ideologia si trova nel promemoria dello storico, letterato e politico Cesare Cantù, amico del primo direttore Giuseppe Marinoni, inoltrata per la difesa dell’Istituto delle Missioni Estere di Milano, minacciato di soppressione, presso il parlamento italiano (maggio 1864).

«I missionari sono apportatori di civiltà nelle più barbare regioni del globo. Le nazioni più colte, anche protestanti, hanno riconosciuto l’utilità grande delle missioni, e le promuovono con favori e con sacrifici ragguardevoli. E le missioni sono l’anello che congiunge l’Europa con lidi più remoti. Esse aprono la via al commercio, al progresso delle scienze e delle arti, esse procurano all’Europa una esatta notizia dei prodotti, costumanze, delle lingue, delle storie interessanti di tanti popoli a noi sconosciuti. Ad essi devonsi le più preziose ed importanti scoperte!».

Questo testo non è dei nostri missionari, e deve essere compreso alla luce del suo obbiettivo: evitare che il governo anticlericale italiano sopprima l’Istituto delle Missioni estere di Milano, assicurando il parlamento del valore civile della sua opera. I nostri missionari, lo vedremo più avanti, non erano affatto spinti da queste motivazioni, ma solo dal desiderio di portare il Vangelo agli estremi confini della terra.

Missione e conversione

Ramazzotti e i nostri primi missionari condividevano l’idea che lo scopo della missione è la conversione delle anime. ‘Salpare i mari, salvare un’anima e morire’. Sarà l’idea proposta dalla scuola di Münster, fondata dal primo missiologo cattolico Joseph Schmidlin. In un pro-memoria da lui preparato nei mesi convulsi della prima spedizione dell’istituto, si legge il pensiero del fondatore:

«Togliete il pensiero della conversione degli infedeli e rimane tolta l’idea che da anni e anni ha maturato nel cuore dei missionari la generosa risoluzione di abbandonare la famiglia e tutto per correre in aiuto dei più infelici dei loro fratelli».

Ramazzotti impiega termini come ‘infedeli’ e ‘infelici’, pagando un forte tributo alla mentalità del tempo. Usa però anche una terminologia che anticipa le acquisizioni della teologia della missione oggi, ovvero che la missione sia un dono che parte dal cuore.

Pensate voi cosa sia il dono della fede e riflettete che immense regioni e milioni di anime ne vanno ancora prive. E se questi pensieri vi toccano il cuore, promuovete e abbracciate l’opera di cui parliamo.

Nella supplica di Marinoni alla conferenza episcopale lombarda (26 novembre 1850) leggiamo:

Il loro cuore è vivamente commosso (e lo esprimono in una comune protesta che suol farsi da tutti al Signore) dalla sorte infelice di quei popoli, i quali trovandosi in remotissime contrade sono stati finora inaccessibili alla bella luce del Vangelo.

Qualche tempo dopo (3 marzo 1852), lo stesso Marinoni scrive ai vescovi lombardi circa l’infelicità di coloro che non conoscono Gesù:

«Il cuore dei Pastori delle anime è troppo sensibile alla infelicità di coloro che non conoscono il nostro Divin Salvatore».

Per quanto fosse fin troppo pessimista e oggi inaccettabile, questa visione è stata sostanzialmente condivisa dalle varie generazioni di nostri missionari, fino almeno al Concilio Vaticano II. Occorre riconoscere che la visione così radicalmente negativa di coloro che non sono ancora raggiunti dal Vangelo suscitava energie, eroismo e generosità cui, credo, nella maggior parte dei casi, non siamo più abituati. Come già menzionato, torneremo sull’infelicità, tema importante per descrivere oggi la missione.

Missione come fondazione delle Chiese

I missionari di Milano si sono prefissi lo scopo di fondare chiese locali, crescerle e affidarle al clero indigeno. La missione come plantatio ecclesiae fu teorizzata da Pierre Charles, fondatore della scuola di Lovanio. Questa caratteristica ecclesiale, ovvero una Chiesa che invia e una Chiesa che nasce, al di fuori dello schema degli ordini religiosi che tutto tengono per sé, era particolarmente cara a Ramazzotti. Egli aveva, più e prima di altri, compreso ed affermato la responsabilità missionaria dei vescovi e delle chiese particolari di lunga tradizione cattolica verso vescovi e chiese particolari dei territori di missioni.

La Lombardia del 1850 non era così cattolica, devota e praticante come uno potrebbe pensare oggi. E probabilmente non particolarmente preparata per un’opera missionaria. Ramazzotti fonda un istituto perché intuisce che la missione fa parte della Chiesa, e inizia anche quando la Chiesa non ne sembra preparata.

La missione non nasce quando una Chiesa è matura e dunque in grado di inviare le proprie ‘eccedenze’. Oggi diremmo che è la missione (originata nella Trinità) che fa la Chiesa, non il contrario. L’affermazione dell’elemento lombardo, locale, particolare, è un’anticipazione della responsabilità della Chiesa locale, diocesana, nei confronti della missione universale. La cosa verrà poi messa in pratica dai preti missionari ‘fidei donum’ e dal Concilio Vaticano II.

Al partente Paolo Reina, il capo della prima spedizione, Ramazzotti consegna il proprio crocifisso, affinché il missionario lo consegni al vescovo locale a cui era inviato. Un gesto che esprime la consapevolezza del dovere primario dei vescovi di annunciare il Vangelo. È un’ecclesiologia che verrà riabilitata e ribadita dal Concilio Vaticano II.

Oggi, se vogliamo essere fedeli al nostro fondatore, non dovremmo ritornare sul carattere milanese dell’Istituto, cosa del tutto fuori tema, ma piuttosto chiederci quali sono i nuovi luoghi remoti della missione. Le frontiere della missione oggi non sono geografiche, ma sociali, culturali e esistenziali.

La risposta cattolica al colonialismo

Papa Pio IX che fu, in un senso molto importante, l’ispiratore dei Seminari di Milano e di Roma, si impegnò fortemente nella promozione della rinascita dell’attività missionaria. La rinascita missionaria della metà del 19mo secolo, quella delle Missioni estere di Milano, è la risposta della Chiesa cattolica alla modernità e al colonialismo delle potenze europee. Le potenze politiche, rivoluzionarie e massoniche, si rappresentarono come nemiche mortali del papato e della religione cattolica. Il Papa volle emancipare le missioni dalla politica e dalle potenze protettrici, la Spagna e il Portogallo, ma soprattutto la Francia, e poi la Germania. Esse, con spregiudicatezza, utilizzavano le missioni esclusivamente per il loro interesse nazionale.

Cosciente di non poter più fare affidamento sul potere politico e temporale, Pio IX puntò sulla rinascita spirituale del popolo cattolico. Diede grande impulso alle devozioni, particolarmente a quelle verso il Sacro Cuore, che esprimeva in sentimento religioso il clima culturale del romanticismo; verso la Madonna (lo stesso Papa promulgò il dogma dell’Immacolata nel 1854); e verso il Papa stesso (dogma dell’infallibilità del 1870).

Pio IX fu il primo Papa della storia che fu oggetto, ancora vivente, di diffusi sentimenti di devozione e affetto da parte del popolo cattolico. Queste tre devozioni influenzarono moltissimo l’attività missionaria della seconda metà del 19mo secolo, quella in cui nacquero le Missioni Estere di Milano e di Roma. Ramazzotti era un convinto assertore di almeno due delle dottrine qui citate: quella dell’Immacolata e del primato del romano Pontefice. Il suo intervento, a Pavia, verso i preti che si erano rifiutati di accettare il dogma dell’Immacolata fu molto deciso, per quanto doloroso e attuato con sensibilità; e ugualmente fu la sua indicazione di obbedienza incondizionata al Papa nel corso delle incomprensioni con la Santa Sede nel ‘drammatico 1853’.

Lungi dall’essere strumento dell’imperialismo politico delle potenze europee dell’epoca, l’attività missionaria, ispirata da Pio IX, fu proprio la sua modalità religiosa e non politica di opporsi e contrastare la politica di espansionismo europeo. L’ispirazione religiosa fu la ragione profonda dell’eccezionale incremento missionario nella seconda metà del XIX secolo, di cui i seminari di Milano e di Roma, poi confluiti nel PIME, furono una significativa parte.

Missione romantica ed eroica

I missionari delle Missioni Estere di Milano alla ricerca del loro primo campo di lavoro, scelsero per sé una lontanissima e difficilissima missione in Micronesia. Era una sfida folle, che può essere comprensibile solo come atto di estrema fede.

Quando Propaganda Fide esitò a inviare giovani così promettenti proprio in quelle isole disperse, e propose altre missioni, tra cui Hong Kong, i giovani missionari protestarono: preferivano proprio quella missione impossibile e rifiutata da tutti. Le isole di Rook e Woodlark, scelte dai missionari di Milano, erano, allora come oggi, fuori da qualsiasi rotta strategica, commerciale o turistica, luoghi tagliati fuori dal resto del mondo, che non interessavano a nessuno, se non al nascente istituto di Milano. Seguiremo anche per questo la visita del Papa in Papua Nuova Guinea del prossimo settembre.

La ricerca di un luogo impossibile, dove vivere una missione ‘eroica’ disposta all’estremo sacrificio, ci mostra quali fossero le motivazioni profonde che spingevano questi giovani: il dono di sé per la salvezza delle anime. I missionari non rischiavano la vita per il successo della loro nazione, per la quale non avevano senso di appartenenza, ma per portare la ‘bella luce del Vangelo’. Le lettere dei missionari, depositate a decine di migliaia negli archivi delle società missionarie in tutta Europa, e anche nel nostro archivio, lo testimoniano.

Gioia, amicizia e missione

Il grande secolo missionario (1850–1960) ha avuto grandi meriti ed eroismi, ma anche un linguaggio inadeguato. Le persone destinatarie dell’annuncio evangelico erano descritte in modo spesso derogatorio con termini quali ‘pagani’, ‘infedeli’, ‘infelici’, ‘selvaggi’, ‘popoli immersi nelle tenebre dell’ignoranza’ e così via. L’espressione ‘popoli infelici’, ‘poveri infelici’, ‘infelici’, ricorre spesso nella letteratura delle missioni estere del tempo e, come abbiamo visto sopra, è impiegata, occasionalmente, anche da Ramazzotti e Marinoni. Il linguaggio dell’infelicità sembra riecheggiare, in negativo, il clima culturale del romanticismo.

Alla notizia della morte di Giovanni Mazzucconi, il direttore Marinoni scrive ai vescovi lombardo-veneti (21 luglio, 1856) che i missionari erano mossi da amicizia verso gli infelici, e da loro tradita:

«Una pietà più viva verso quegli infelici avvolti in sì fitte tenebre d’ignoranza, da versare il sangue dei loro più grandi amici, il sangue di quelli che lasciano ogni cosa più cara per amore delle anime loro».

Naturalmente Marinoni si riferiva all’ignoranza della fede, non ignoranza culturale o intellettuale. Tuttavia i missionari sanno, per esperienza diretta, che le persone che incontrano non sono insoddisfatte, infedeli, o infelici. Ne parlo per diretta esperienza.

Il tema della felicità e della gioia è fondamentale nel vangelo (che significa notizia buona o gioiosa) e di conseguenza della missione. Che, ieri come oggi e domani, nasce dalla gioia del mattino di Pasqua ed è comunicazione della felicità che si prova nell’annunciare che il proprio amico e Signore è vivo. Se i cristiani e i missionari non conoscono questa felicità hanno già perso in partenza. Il beato Clemente Vismara affermava che la sua missione era fare felici gli infelici. Il libro che padre Gheddo gli ha dedicato ha proprio questo titolo. Vismara, e credo anche Gheddo, avevano capito almeno una cosa: che la missione ha a che fare con la felicità e non con la tristezza.

Il vangelo è una gioia imprevista che trasforma, non la risposta alla tristezza umana. La fede in Gesù è un dono, i doni sono solo gratuiti, non esistono i doni per necessità. Il vangelo è una notizia gioiosa, una buona novella, come di diceva una volta, che viene da fuori: c’è bisogno che qualcuno te la comunichi. Se nessuno ti parla di Gesù, allora non puoi conoscerlo. Neanche la persona più intelligente del mondo può arrivare a conoscere Gesù da sola. Gesù non è conseguenza della sapienza umana. Lo conosce solo chi ne sente parlare da un altro. Da uno da fuori, potremmo dire, da uno straniero, da un’ospite.

Per questo il carattere ‘estero’ è essenziale alla missione: esso rappresenta, in modo simbolicamente e plasticamente eloquente, che il missionario porta qualcuna si nuovo, di inatteso, di non richiesto, di non necessario, e lo porta da fuori. Il nome di Missioni Estere, che a qualcuno sembra una eredità colonialista, dice invece, secondo me, una profonda verità circa il mistero della missione. E per questo ciascun missionario del Pime è chiamato ad uscire dalla sua terra e andare in un paese altro.

Quando il dono è comunicato, si apre un mondo nuovo, di cui non si può più fare a meno: l’amicizia con Gesù diventa la cosa più necessaria e felice che ci sia, e non si può più farne a meno.