L’annuale corso di formazione dei missionari del Pime in Messico è stato dedicato quest’anno alla pastorale indigena, pane quotidiano in un Paese che conta 68 popolazioni differenti, ciascuna con la propria lingua e cultura. Dal professore Juan Manuel García Quintanar la prospettiva di una presenza missionaria che sappia scoprire i segni del Cristo nella storia di queste genti anche prima della conquista degli spagnoli
In tempi di pandemia globale e di spostamenti difficoltosi il lavoro del missionario, pellegrino per vocazione, può risentirne. La nostra comunità del Pime in Messico è rimasta sparpagliata in tre continenti e per vivere l’annuale corso di formazione, che è una delle tre, quattro occasioni per trovarsi tutti insieme, ci siamo riuniti grazie all’aiuto delle video-conferenze. Il tema del corso è stato la pastorale indigena, che è pane quotidiano del nostro lavoro nella parrocchia mixteca tra le remote montagne della Costa Chica nello stato di Guerrero, così come nella comunità ad Ecatepec, nella brulicante periferia di Città del Messico a componente più mista, ma che conta di una forte presenza indigena variegata.
Come relatore abbiamo avuto il professore Juan Manuel García Quintanar, membro del CENAMI, Centro Nazionale di Aiuto alle Missioni Indigene, con una carriera da insegnante praticamente in tutti i livelli di educazione e un’esperienza trentennale di vita vissuta tre le comunità tarahumara: il popolo dei “pié leggeri”, così detti per la loro fama di grandi corridori tre le montagne dello stato di Chihuaua, a nord del Paese.
Abbiamo cominciato con una panoramica sulla realtà indigena attuale in Messico: 68 popolazioni differenti sparse per tutta la Repubblica, ciascuna con la propria lingua e cultura, e una popolazione totale che oscilla tra i 25 e i 30 milioni di abitanti sui 120 complessivi. Gli affondi proposti da Juan Manuel hanno avuto come obiettivo il popolo mixteco e il popolo nahua, che sono i due gruppi prevalenti con cui lavoriamo. Più che ad affondi ci siamo limitati ad una rapida infarinatura, data la profondità e ricchezza di storia e cultura dei popoli a cui ci troviamo difronte.
Juan Manuel ha fissato, in quella che potrebbe essere considerata una classica introduzione per inquadrare il contesto, l’asse di una pastorale indigena: la conoscenza e la scoperta del popolo indigeno come tema centrale al quale avvitarsi in una continua discesa sempre più in profondità. Ha proposto un atteggiamento in primo luogo di ascolto e di analisi, usando spesso le espressioni togliersi i calzari e apprendere dai popoli.
La storia dell’evangelizzazione messicana è una storia di conquista. La vittoria militare degli spagnoli sulle popolazioni preispaniche decretò a cascata una vittoria culturale, linguistica e religiosa. Fin da subito fu seminato il marchio dell’inferiorità su tutto ciò che appartenesse alla realtà indigena. La religione cristiana era in primis la religione dei vincitori. I primi missionari inviati con il fine preciso di evangelizzare i popoli recentemente scoperti capirono tuttavia, che la conoscenza della lingua, della cultura e della religione di questi popoli, era necessaria per la loro opera. L’intento nella stragrande maggioranza dei casi fu quello di conoscere per poter meglio estirpare; ma molti di loro dedicarono la vita allo studio delle lingue e delle culture locali e ci hanno lasciato opere preziosissime per capire la storia dei popoli autoctoni.
Mano a mano che i secoli passavano e il meticciato mescolava i nuovi arrivati europei alle popolazioni indigene, l’elemento originario indigeno ha continuato ad essere sempre più marginalizzato, problematizzato e al tempo stesso mai completamente soppresso, pronto ad emergere in un florilegio di manifestazioni culturali e nella religiosità popolare. Oggi, a cinquecento anni dalla conquista, appare francamente strabiliante come tanti milioni di persone siano riuscite a mantenere una propria lingua, cultura e tradizioni.
La pastorale indigena ha vissuto per secoli troppo spesso di un attivismo che ha reiterato una ferita violenta che non è mai rimarginata e che porta in sé delle evidenti contraddizioni con la Buona Notizia che vorrebbe annunciare. Lo stile pastorale proposto dal professore è quello non di colui che viene a piantare, ma colui che viene a dissotterrare i segni del passaggio di Cristo, presenti da ben prima dell’arrivo degli spagnoli nei popoli preispanici. Si tratta di un cambio di prospettiva tutt’altro che facile, ma che ha il sapore evangelico degli incontri di Gesù e della sua ostinazione nel dare dignità a chiunque incrociasse il suo cammino. Uno stile centrato sull’ascolto, che educhi a fare discernimento sui segni dello Spirito nella storia, che apra a rintracciare la fioritura di Dio là dove Dio l’ha voluta e la vorrà e non solo nei luoghi e nelle modalità in cui siamo abituati a vederla fiorire.
Tutto ciò sembra probabilmente che tolga certezze e sicurezze al nostro cammino di missionari, ma stando davanti alle comunità indigene si ha la conferma di come un’ortodossia rigida si possa trasformare in giogo opprimente e prevaricatore. Niente di più lontano dall’umanità libera e liberante del Cristo.