Vengono da India, Myanmar, Bangladesh, Brasile e Costa d’Avorio i sette seminaristi del Pime che in questi giorni hanno compiuto la loro premessa definitiva di appartenenza all’istituto e ricevuto l’ordinazione diaconale. Padre Brambillasca: «Un dono a Dio e ai fratelli, non “numeri” per coprire buchi»
Nello scorso fine settimana il Pime ha vissuto la gioia di accogliere ufficialmente come propri membri sette seminaristi che hanno compiuto la loro promessa definitiva di appartenenza all’istituto. È avvenuto venerdì 25 settembre a Milano nella chiesa di San Francesco Saverio, la chiesa della Casa madre del Pime in via Monte Rosa. La promessa nelle mani del superiore generale dell’istituto padre Ferruccio Brambillasca è avvenuta alla vigilia dell’ordinazione diaconale, che i sette seminaristi hanno ricevuto dall’arcivescovo Mario Delpini nel duomo di Milano sabato 26 settembre, insieme ai nuovi diaconi della Chiesa ambrosiana.
I sette nuovi membri del Pime provengono dal Seminario internazionale di Monza, dove stanno completando la loro formazione teologica. Si tratta di Santhosh Somireddypalli (India), Gregorio Ba Oo (Myanmar), San Li Brang (Myanmar), Eder De Souza Gomes Cordeiro (Brasile), Dominic Richard Dafader (Bangladesh), Bhaskar Narisetty (India), Jean-Jacques Folly (Costa D’Avorio).
Rivolgendosi a loro durante l’omelia della celebrazione eucaristica durante la quale è avvenuto il rito della promessa padre Brambillasca ha invitato tutti a riconoscere in questi sette giovani «un dono grande per le loro famiglie, per le loro Chiese d’origine e per il Pime». Per le loro famiglie, innanzi tutto, si tratta di «un dono grande, inaspettato – ha commentato il superiore generale del Pime -, che manifesta l’amore di Dio per quella famiglia che forse mai aveva pensato di avere come dono un figlio missionario. In modo particolare oggi, dove, per diversi motivi, la nostra società non sembra aiutare questa apertura della famiglia ad una vocazione missionaria, sentiamo l’importanza e il valore di questo dono che apre una famiglia all’universalità, la sola capace di vincere ogni egoismo, chiusura e discriminazione».
Ma i nuovi missionari sono un dono anche per le rispettive Chiese d’origine: «La nostra vocazione missionaria non nasce per caso, per puro accidente, come segno del destino – ha detto ancora padre Barambillasca -, ma nasce dentro una profonda esperienza di fede vissuta in in una Chiesa locale. Per questa comunità, la vocazione missionaria è un dono perché le ricorda di non pensare solo a se stessa e ai propri problemi; è un dono perché le ricorda che tutte le Chiese, anche quelle ancora giovani, devono aprirsi alla missione ad extra e ad gentes; è un dono perché, soprattutto per le Chiese di antica cristianità, la vocazione missionaria ringiovanisce, rinvigorisce e rinsalda la propria fede».
Ma è soprattutto sul significato di questo dono per il Pime che il superiore generale ha invitato a concentrare l’attenzione. Questi giovani missionari «non sono un dono perché aumentano il numero dei membri dell’istituto – ha commentato – o perché i superiori delle nostre Circoscrizioni hanno la speranza che qualcuno sarà destinato alla propria Circoscrizione. Non sono nemmeno un dono perché qualcuno di questi giovani potrà sostituire qualcuno dei nostri confratelli in attesa di partenza o qualcuno che ha il desiderio di cambiare luogo… Sono un dono per un motivo ben più profondo. Così mi scrive un confratello: “In genere noi tutti sacerdoti (a ragione, evidentemente) celebriamo l’anniversario dell’ordinazione sacerdotale, ma io penso sempre all’anniversario della mia promessa definitiva, come l’atto della mia consacrazione al Signore. È lì che ho chiesto alla Chiesa il mio desiderio di legarmi a vita, fino alla morte, al Signore Gesù”».
«L’istituto non ha bisogno di numeri – ha proseguito padre Brambillasca -, non ha bisogno di “coprire buchi” lasciati aperti da altri, non ha bisogno di missionari tanto per avere qualche missionario in più, non ha bisogno di rispondere a tutte le necessità che lo interpellano, non ha bisogno di continuare solo per il desiderio di continuare e non cambiare, non ha paura di morire per mancanza di vocazioni… Conosciamo bene il rischio di affondare in una vita insipida e spenta, senza vera consacrazione e amore per Dio. Accade quando non comunico amore a chi mi incontra, non sono generoso di me, non so voler bene a Dio e agli altri. Il valore della consacrazione a Dio ci ricorda che non siamo chiamati anzitutto a far del bene, a fare i missionari, ma a voler bene, ad essere missionari con tutta la nostra vita di consacrati».
Il Pime – ha cocluso il superiore generale – «non ha bisogno di persone che vogliono fare i missionari, ma di persone che vogliono essere missionari, persone che si consacrano al Signore per tutta la vita, fino alla morte; poi tutto il resto verrà di conseguenza, come la missione, l’istituto, la Chiesa locale, l’obbedienza, la povertà, le vocazioni… Oggi, più che mai, in un tempo dove la consacrazione al Signore sembra venire meno oppure è sublimata da tante altre idee o concetti, noi, confratelli del Pime, davanti a questi sette giovani che tra poco faranno la loro promessa definitiva al Pime, dobbiamo sentire ancora più forte questa chiamata alla consacrazione che si gioca quotidianamente nella missione che l’istituto ci ha affidato».