Morte
L’Awami League, andata al potere con maggioranza assoluta quasi 5 anni fa, l’aveva promesso: processeremo i criminali della guerra che ha portato all’indipendenza del Bangladesh, nel 1971. Dopo una partenza incerta, i tribunali appositamente istituiti hanno iniziato a lavorare, e quasi tutti i dirigenti del partito islamico Jamaat-Islam sono finiti in carcere con accuse di stragi, torture, stupri, vandalismi in collaborazione con le truppe pakistane. Un poker d’assi per l’Awami League! Superato lo shock iniziale, i militanti del Jamaat hanno iniziato proteste e scioperi che ultimamente si sono fatti sempre più duri, per chiedere la liberazione dei loro capi e lo scioglimento dei tribunali. Allo scarso numero rimediano l’abbondanza di soldi e l’ottima organizzazione con tattiche da guerriglia urbana. Poi è arrivata la prima sentenza: condanna a morte di un criminale che però si trova all’estero – forse in Pakistan – e quindi la scamperà. La seconda, il 5 febbraio, ha condannato all’ergastolo Abdul Kader Mollah.
Ed è scoppiata la reazione – del tutto imprevista. Nel giro di poche ore migliaia di persone sono scese in piazza per protestare, al grido di “Fasci ciai“: vogliamo l’impiccagione. Da allora, il quartiere di Shahbagh a Dhaka è perennemente occupato da giovani, di tutti i ceti e i partiti, da ex partigiani, intellettuali, gente del mondo dello spettacolo, professori, politici che pretendono la pena di morte per tutti i criminali.
Il 17 febbraio il Parlamento ha accolto le loro richieste e ha emendato una legge così da permettere il ricorso contro la sentenza che condanna Kader Mollah all’ergastolo, poi ha approvato una legge che permette di accusare e processare non solo gli individui, ma anche le organizzazioni (quindi, ovviamente, anche il Jamaat-Islam). Quando la protesta sembrava incominciasse a perdere forza, e i leaders avevano già annunciato che avrebbero ridotto a 7 ore al giorno l’occupazione del quartiere, un “blogger” noto per il suo impegno contro i criminali è stato pugnalato a morte, e il fuoco è divampato più violento.
Il BNP, partito nazionalista alleato del Jamaat, aveva blandamente appoggiato gli scioperi, ma i suoi giovani si sono uniti alla protesta, cui il partito ha dovuto dichiarare il suo appoggio. Il Jamaat, a sua volta, s’incattivisce di giorno in giorno, isolato e senza sbocchi politici, minacciando una guerra civile che da parte sua ha già iniziato.
La protesta ha spiazzato tutti, come una delle tante “primavere arabe” del Medio Oriente, e finora è pacifica. Non chiede di rovesciare un regime dittatoriale, come in Libia o in Egitto, ma di chiudere una partita apertasi 42 anni fa. Siamo alla resa dei conti di una contraddittoria vicenda che ha visto i collaborazionisti fuggire dopo l’indipendenza, per rientrare e salire fino ai posti più alti della politica dopo l’uccisione, nel 1975, del Padre della patria Mujibur Rahman e di altri leaders dell’indipendenza; e ha trasformato gradualmente una costituzione secolare e socialista in una costituzione filo-islamica, con una politica che spesso ha blandito il fondamentalismo. Resa dei conti dunque anche fra secolarismo e fondamentalismo – per quanto si riesce a capire; ma non si sa bene chi vi pesca dentro e che cosa sta bollendo.
L’invocazione di morte che da Shahbagh si riverbera in migliaia di piazze, scuole, istituzioni di tutto il Paese e anche fra i bengalesi all’estero, non trova oppositori: l’avversario va annientato. Nessuno sembra dubitare dell’istituzione in sé della pena di morte.
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