Protezione
Dopo l’assassinio o il tentato assassinio di stranieri, e di un pastore battista bengalese, le forze di polizia sono in allarme rosso, e sotto enorme pressione del governo, perché ci proteggano. Chiuso uno dei due cancelli della missione, giorno e notte quattro poliziotti presidiano l’altro, controllando chi entra e chi esce. Ci pregano di non uscire troppo, ma quando serve siamo liberi di farlo, purché accompagnati da uno di loro. Possiamo andare anche lontano: allertando il comando due giorni prima, manderanno una scorta.
Il giorno dopo aver ricevuto queste disposizioni, da Khidirpur (70 chilometri da Dinajpur), telefona p. Almir, che s’è malamente tagliato un piede e sanguina molto. Massimo, l’infermiera suor Dipty e io in un attimo siamo al cancello con l’auto. Ma non abbiamo avvisato due giorni prima, e i giovanotti di guardia sono smarriti. Si accertano che non si tratti di un attentato, e che il ferito sia uno straniero (“se è un bengalese non conta…”). Telefonano freneticamente a vari numeri, spiegano e rispiegano, ci fanno spiegare e rispiegare, ricevono ordini confusi. Si fanno dare e ridare nomi e numeri di telefono. Chiedono e richiedono dove andiamo, quando torniamo, che strada facciamo. Poi,
raggianti, annunciano che l’auto di scorta arriva in un minuto. Aspettando,.più volte esprimiamo il desiderio di arrivare sul posto prima che il ferito sia dissanguato… Si dicono d’accordo, e ci tranquillizzano: “Ormai è qui…”
Con perplessità ci lasciano spostare l’auto sulla strada, pronta per partire. Si fa avanti un tale in borghese con taccuino, rifà tutte le domande, prende nota, chiede i numeri di telefono, telefona più volte – sorridente e rassicurante. Colpo di genio di Massimo: “Senta, la vostra auto deve arrivare dalla direzione in cui dobbiamo andare, noi ci avviamo e ci incontreremo”. Telefonata, permesso, si parte.
I chilometri scorrono, incominciano le telefonate: dove siete? Dove andate? Quanti siete? Com’è la vostra auto? Vi aspettiamo al ponte sull’Atrai… Massimo fila veloce, al ponte non c’è nessuno. Poi ecco una camionetta, saluti cordiali. “State tranquilli, noi vi precediamo”. –
40 chilometri all’ora…
Intanto p. Almir, capita l’antifona, s’è fatto portare da una motocicletta fino a Fulbari. Quando vi arriviamo si deve cambiare pattuglia di scorta, e ci vuol tempo a spiegare che sì, intendevamo arrivare a Birampur, ma ora non conviene proseguire per altri 15 chilometri fino là e poi tornare, dal momento che l’infortunato stesso è arrivato a Fulbari. Discussione, telefonate, consenso. Con la nuova scorta raggiungiamo p. Almir e lo carichiamo.
“Precediamo noi” dice Massimo con tono leggermente minaccioso. “Ok, precedete”. In poco tempo la camionetta è fuori orizzonte, e ci telefonano: “Ma voi andate in fretta! Dateci dentro, troverete un’altra scorta più avanti”. Ogni tre minuti, telefonata per chiedere dove
siamo e indicare dove ci attendono… ma non li troviamo, finché, a pochi chilometri da Dinajpur, un gruppo di giovanotti in divisa ci ferma.
Si accerta sulle nostre condizioni di salute e chiede dove andiamo. Poi, due di loro saltano su una piccola motocicletta per seguirci. Li seminiamo, ma il tratto finale di strada è così sconnesso che ci raggiungono e facciamo trionfale ingresso all’ospedale tutti insieme: il
ferito, l’infermiera, l’autista, il sottoscritto e due poliziotti garanti della nostra incolumità.
Mentre il medico sistema la ferita, aspettando di accompagnarci a casa, esprimono sdegno per l’accaduto, sconfinata ammirazione per i missionari (mia moglie ha partorito due volte nel vostro ospedale, pulitissimo!), lamentano la durezza della loro vita e mi sommergono di domande su preti, suore, missionari, famiglie, chiedendomi in confidenza: “I medici dell’ospedale sono bengalesi?”. “Sì”. “Stipendiati?” “Certo!” “Non fidatevi, noi siamo tutti ladri…”. Concludo, per evitare equivoci: siamo grati per il servizio, e comprendiamo che il loro compito, con i mezzi che hanno, non è semplice.
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