Molti popoli indigeni, in vari luoghi del pianeta, hanno creato un modello di possesso comunitario, in cui tutti possono godere di ciò che la natura offre. Ma l’Occidente ha imposto la sua visione, cancellando anche le poche terre comuni in Europa. Storie, misfatti e follie nel saggio “Terra”
Nell’Africa occidentale, gli ashanti sostengono che la terra «appartiene a una vasta famiglia di cui molti sono morti, pochi sono vivi e una schiera innumerevole non è ancora nata». In pratica, è proprietà condivisa di una comunità, di cui fanno parte anche le generazioni passate e future. Questo modo di ragionare, che a noi occidentali può sembrare bizzarro, in realtà è stato comune a molte civiltà umane, fiorite in tempi e luoghi diversi del nostro pianeta. Quello di suddividere la terra in appezzamenti di “proprietà privata”, come ha fatto l’uomo bianco ovunque abbia messo piede, non è l’unico modello possibile. È solo quello prevalente, e non è detto che sia il migliore.
Lo scrittore e giornalista britannico Simon Winchester nel saggio Terra. Da bene comune a proprietà privata, da luogo di dominio a spazio di lotta, appena pubblicato da Mimesis, ha indagato sulle consuetudini e ha ricostruito storie, misfatti e follie legate al possesso della terra in tutto il globo. Conclude il suo viaggio per il pianeta mettendoci in guardia: la terra, il bene più sicuro in assoluto, potrebbe non essere più tale. I 37 miliardi di acri di terre emerse (equivalenti a circa 15 miliardi di ettari) rischiano in parte di essere divorati dal mare, a causa del cambiamento climatico che sta innalzando il livello degli oceani.
Fa bene leggere il libro di Winchester, perché ci rinfresca la memoria su tanti crimini commessi dagli europei, in nome di una presunta missione civilizzatrice. L’esempio più eclatante è la conquista del Nord America. Non era un territorio “vuoto” da conquistare. Venti milioni e più di popolazioni indigene ci vivevano da migliaia di anni, organizzati i gruppi e tribù che praticavano l’agricoltura. Un capo dei Wampanoag, che salvarono i Padri Pellegrini sbarcati in America dalla morte per fame, disse: «La terra è nostra madre, nutre tutti suoi figli, le bestie, gli uccelli, i pesci e ogni uomo. I boschi, i corsi d’acqua, tutto ciò che c’è su di essa appartiene a tutti ed è per l’uso di tutti. Come può un uomo dire che appartiene solo a lui?». Lui e la sua comunità erano perplessi davanti a questi sconosciuti che sbarcavano piantando bandiere e rivendicando il possesso delle loro terre in nome di un fantomatico – per loro – monarca inglese. Per affermare il loro diritto, i coloni e i loro sostenitori in Europa si scervellarono inventandosi che una terra comune, mai assoggettata, priva di documenti di proprietà, era libera per chiunque la volesse possedere e migliorare. E John Locke, filosofo britannico, avrebbe rincarato la dose dicendo questo che era un dovere cristiano, sancito nel libro della Genesi.
Nei secoli successivi, i coloni inglesi ormai diventati americani fecero di tutto per sbarazzarsi delle oltre cinquecento tribù di nativi. L’unico che provò a porre un freno all’invasione fu re Giorgio III d’Inghilterra, che proclamò ai suoi sudditi d’oltre Atlantico di lasciare il territorio a ovest dei monti Appalachi agli indiani. Ovviamente l’indipendenza della colonia dall’Inghilterra fece carta straccia di questa richiesta. A milioni, i nativi furono rinchiusi in riserve, massacrati, sottoposti a marce forzate. Sterminati persino con il metodo delle coperte imbevute di bacilli del vaiolo. Allevatori di bestiame, cercatori d’oro, avventurieri misero mano alle terre indigene, stilarono atti di proprietà, crearono un sistema secondo il quale i nativi non godevano degli stessi diritti dei bianchi. Ironia della sorte, non avevano diritto neppure della cittadinanza statunitense, loro che erano i primi, veri americani. Solo nel 1924, i 300 mila indiani sopravvissuti divennero cittadini Usa.
Un altro capitolo avvincente del rapporto fra imperialismo occidentale, brama di terra e popoli indigeni riguarda la Nuova Zelanda. Stavolta siamo a metà dell’Ottocento e gli inglesi cercano di imbrogliare i Maori, abitanti originari dell’isola e fautori di una proprietà condivisa della terra da parte della comunità. Un trattato poco chiaro, firmato nel 1840 con mezzi che rasentano l’inganno, porta a decenni di feroci guerre. I Maori hanno la peggio, finché negli anni Settanta un’anziana vedova maori si pone a capo di un movimento di protesta destinato a cambiare le cose. La lingua polinesiana acquista una nuova dignità, i toponimi indigeni tornano a essere usati sulle mappe e soprattutto vari giudici condannano gli errori del passato, riconoscendo risarcimenti ai Maori per i diritti di pesca e di uso delle foreste. Nessuno è perfetto, ma la Nuova Zelanda di oggi è un esempio virtuoso nella costruzione di un rapporto più inclusivo con i discendenti degli indigeni.
In ambito post coloniale, la Gran Bretagna ha fatto qualche tentativo di ricreare un equilibrio dopo aver sfruttato a suo vantaggio le terre dell’ex impero. I danni, però, non si riparano con facilità. Quando si scardina un sistema sociale che funzionava per espropriare le terre e darle ai coloni bianchi, non è sempre semplice tornare indietro. Un esempio che Winchester cita è quello dello Zimbabwe. Londra ha creato un fondo per risarcire gli agricoltori bianchi insediati nel Paese e ridistribuire le terre ai contadini senza terra. «Nel 2000 – scrive il giornalista – circa il 40 per cento delle terre dei bianchi era stato trasferito in mani nere. Solo che non era finito nelle mani dei contadini senza terra ma, in troppi casi, in quelle dei compari politici del presidente Robert Mugabe».
E in Europa? Se gli olandesi sono stati i più virtuosi nell’assegnazione delle nuove terre strappate al mare a tutti i loro cittadini e in modo equo, il libro Terra raccoglie anche storie meno edificanti. Nell’Inghilterra medievale, dove già esisteva il concetto di proprietà della terra, si assegnavano dei lotti da coltivare a ogni famiglia per poter sopravvivere, più l’accesso a terre comuni dove far pascolare gli animali, per evitare che si mangiassero quanto coltivato nei campi. Poi si perse questa buona abitudine, favorevole ai meno abbienti, e comparvero le recinzioni dei terreni e la fine delle terre comuni. L’impoverimento che ne conseguì contribuì ad allontanare dalle campagne i contadini che si inurbarono, diventando braccia da sfruttare a buon mercato durante la Rivoluzione Industriale.
Il XXI secolo non promette di meglio, se si pensa alle disuguaglianze in crescita. I venti più ricchi proprietari terrieri degli Stati Uniti possiedono oltre mezzo milione di acri (oltre 200 mila ettari) per ciascuno. Ma c’è anche qualche esempio che fa sperare, ispirato a un’idea di condivisione: i community land trust, presenti soprattutto in Inghilterra e negli Usa, hanno spesso recuperato terreni disastrati, migliorando l’ambiente e creando soluzioni abitative alla portata di tutte le tasche.