Non solo Expo
Dal 23 al 31 maggio, Milano sarà anche la capitale mondiale del commercio equo e solidale. Si svolgerà, infatti, nel capoluogo lombardo la World Fair Trade Week, una settimana di eventi e convegni sul «senso più profondo e innovativo del commercio equo e sul suo rapporto con i cittadini». E negli stessi giorni – dal 23 al 25 maggio – anche il Pime ospiterà la sua tradizionale Fiera del commercio equo Tuttaunaltrafesta Family.
Sarà particolarmente significativo quest’anno parlare di questi temi in concomitanza con un evento internazionale come l’Expo, che ha messo al centro proprio la questione del cibo.
Promossa dalla World Fair Trade Organisation (l’Organizzazione mondiale del commercio equo) questa Conferenza generale, che si svolge ogni due anni, sarà un importante momento di confronto per l’intero movimento internazionale del commercio equo e solidale, ma anche un’occasione per riportare attenzione e riflessione su un modello economico che ha suscitato grandi aspettative e speranze, che ha provato a cambiare il modo di concepire il rapporto con l’ambiente e i produttori, ma che ha scatenato anche tante polemiche e accuse.
A Milano sono attesi centinaia di delegati da tutto il mondo, in rappresentanza di più di 70 Paesi. In particolare, spiegano gli organizzatori, «la Fair Trade Week si concentrerà sul domestic fair trade, ovvero sul modo in cui l’economia solidale si declina a livello locale, e soprattutto sul concetto di responsabilità, vale a dire il modo in cui le organizzazioni di commercio equo e solidale garantiscono a tutti l’eccellenza del prodotto, una filiera commerciale virtuosa e uno sviluppo che possa davvero “nutrire” il mondo». «L’assemblea – si precisa – sarà anche l’occasione per fare il punto sull’avanzamento e la crescita di questo modello economico che ha avuto insigni riconoscimenti da istituzioni quali il Parlamento europeo e numerosi governi nazionali». Tuttavia, in questi ultimi tempi non sono mancati neppure gli attacchi e le critiche. In sostanza, i suoi detrattori ritengono che, da un lato, il commercio equo non avvantaggerebbe veramente i produttori più poveri e, dall’altro, incontrerebbe sempre meno il favore dei consumatori “ricchi”.
Entrambe queste obiezioni vengono in particolare dalla Gran Bretagna. È britannica, infatti, la ricerca della Scuola di studi orientali e africani (Soas) condotta in Etiopia e Uganda, secondo la quale i contadini che producono prodotti certificati Fairtrade non trarrebbero reali benefici, in termini di miglioramento delle loro condizioni di vita.
Ancora più severo il rapporto dell’economista senegalese Ndongo Samba Sylla, pubblicato dalla Ohio University Press: The Fair Trade Scandal: Marketing Poverty to Benefit the Rich (“Lo scandalo del commercio equo e solidale: fare marketing sui poveri a vantaggio dei ricchi”). Il titolo, già di per sé, è un atto di accusa molto pesante. Ma non del tutto “fair”. Come già la ricerca britannica, anche questa punta il dito contro il sistema di certificazione che, avendo lo stesso costo per tutti, privilegerebbe i Paesi meno svantaggiati tra quelli poveri. E, infatti, gran parte dei prodotti del commercio equo vengono dall’America Latina e non dall’Africa, dove la povertà assoluta è più diffusa e le realtà produttive sono più arcaiche.
I responsabili di Fairtrade sono perfettamente consapevoli dei limiti di un sistema che si scontra con modelli di produzione – ma anche con realtà sociali e politiche – che, specialmente in Africa, non consentono lo stesso sviluppo del commercio equo e solidale come avviene invece in altre parti del mondo.
Ad ogni modo, anche in Africa si stanno facendo significativi passi avanti e le organizzazioni del commercio equo – insieme a quelle della società civile locale e internazionale, ai gruppi di contadini e ai sindacati – stanno contribuendo a diffondere sempre più (anche se ancora troppo poco) una maggiore coscienza, anche sociale, dei diritti dei lavoratori e delle comunità. Comunità presso le quali viene inoltre reinvestito un margine aggiuntivo (Fair Trade Premium) che dovrebbe servire a offrire maggiori servizi e opportunità (ad esempio, in termini di accesso all’istruzione e alla sanità). Ma se il commercio equo si confronta con queste criticità nei Paesi poveri in termini di produzione, anche sul fronte dei Paesi “ricchi” conosce alcune battute d’arresto, in termini di consumo.
In Gran Bretagna, in particolare, i prodotti certificati Fairtrade hanno conosciuto un calo di vendite del 4% nel 2014. È la prima volta che succede in vent’anni. La ragione principale è legata alla crisi economica che orienta sempre più consumatori verso i discount. Secondo Michael Gidney, direttore esecutivo della fondazione Fairtrade, «la nostra maggiore preoccupazione adesso riguarda il comportamento competitivo sempre più aggressivo nel settore dei generi alimentari, che potrebbe ridurre il volume delle merci che contadini e lavoratori vendono a condizioni giuste ed eque, certificate da Fairtrade. E come risultato si avrebbe una perdita reale per quelle famiglie e comunità che lavorano duramente in alcuni dei Paesi più poveri del mondo».
Di fondo, però, sarebbe interessante che queste tendenze e queste criticità potessero anche alimentare nuovamente e in positivo il dibattito attorno al commercio equo e più in generale intorno alla possibilità di realizzare, all’interno di un mondo globale e interdipendente, scambi commerciali più equi e rispettosi del giusto valore del lavoro di tanti produttori specialmente nei Paesi più poveri. Ma anche che si tornasse a discutere e a mettere in discussione modelli di consumo condizionati dagli interessi dei più forti. Modelli che la perdurante crisi ha ampiamente dimostrato che non possono reggersi e soprattutto non possono garantire un futuro sostenibile all’umanità. MM