L’Indice globale della fame presentato oggi evidenzia alcuni segnali positivi nella lotta alla malnutrizione, ma il numero di affamati nel mondo resta inaccettabilmente alto ed entro il 2030 sarà impossibile arrivare all’obiettivo “Fame Zero”.
Il livello di fame nei Paesi in via di sviluppo è diminuito del 29% dal 2000 ad oggi. Ad evidenziarlo è l’Indice globale della fame 2016, presentato oggi a Milano dal Cesvi in collaborazione con l’International Policy Research Institute (Ifpri), che da undici anni stila questo rapporto internazionale sui progressi della lotta alla malnutrizione nel mondo.
La cifra degli affamati nel mondo resta scandalosamente alta: 795 milioni le persone denutrite croniche, un bambino su quattro è affetto da arresto della crescita. L’indice dalla fame è calcolato assegnando a ogni Paese un punteggio GHI (Global Hunger Index), che prende in considerazione l’insufficienza di apporto calorico (la FAO definisce la denutrizione come il consumo di meno di 1800 calorie al giorno) ma anche la mortalità infantile nei minori di cinque anni, l’arresto della crescita e il deperimento dei bambini.
La buona notizia è che, rispetto al 2000, 22 Paesi hanno ridotto il loro punteggio del 50% o più. Uno dei Paesi ad aver fatto più progressi, per esempio, è il Ruanda, che insieme a Cambogia e Myanmar, aveva livelli di fame allarmanti ed è riuscito a ridurre il proprio punteggio quasi del 60%.
L’altro lato della medaglia è che, secondo l’Indice globale della fame, anche se il livello di malnutrizione dovesse diminuire allo stesso tasso registrato dal 1992 ad oggi, non si riuscirebbe comunque a raggiungere l’obiettivo “Fame Zero” fissato dalla Nazioni Unite con i nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile e più di 45 Paesi – tra cui India, Pakistan, Yemen e Afghanistan – avrebbero ancora un livello di fame fra il “moderato” e l’ “allarmante”.
I miglioramenti, inoltre, non sono stati omogenei e continuano ad esserci forti disparità su scala regionale, nazionale e subnazionale.
A frenare la lotta alla fame, se non addirittura a invertirne la rotta, sono soprattutto i conflitti e l’instabilità politica. In sei anni di guerra in Siria la produzione alimentare è crollata del 40% (dati Pam), in Somalia l’unico dato che è stato possibile reperire a causa dell’instabilità politica è allarmante: la mortalità infantile è la più alta del mondo. In Libia il 23% dei bambini hanno avuto un arresto nella crescita dal 2011 ad oggi e 1,2 milioni di persone su 6,4 milioni soffrono la fame.
Fra le leve possibili per migliorare la situazione, l’Indice globale della fame segnala la parità fra uomo e donna: i dati evidenziano che nei Paesi dove le donne sono discriminate c’è più fame. Se, inoltre, non verranno affrontate le cause strutturali sottostanti al problema della malnutrizione attraverso politiche agricole a lungo termine che tutelino anche le fasce più deboli, non sarà possibile ottenere un’eliminazione duratura della fame e c’è il rischio di invertire la rotta rispetto ai progressi raggiunti. È il caso, per esempio dello Zambia, che quest’anno si trova al terzo posto fra i Paesi con i più alti livelli di fame, dopo alcuni progressi fatti negli scorsi anni. A pesare è stato il crollo dei prezzi delle materie prime, il rame fra tutte, di cui lo Zambia è il principale esportatore.
I dieci Paesi dove c’è più malnutrizione sono, oltre allo Zambia, Repubblica Centrafricana, Ciad, Haiti, Madagascar, Yemen, Sierra Leone, Afghanistan, Timor-Est e Niger.
La lotta contro la fame non si combatte semplicemente aumentando la produzione di cibo. Secondo Gianpietro de Cao, dell’ufficio della Commissione europea per la cooperazione allo sviluppo, intervenuto alla presentazione dell’indice, è indispensabile, nei Paesi più a rischio di malnutrizione, «analizzare tutta la filiera produttiva di un determinato prodotto e vedere com’è ripartito il profitto, chi guadagna di più e chi di meno». De Cao ha sottolineato anche l’importante ruolo di controllo della società civile: «Spesso sono le organizzazioni che lavorano sul campo che ci possono dire se la realtà corrisponde alle analisi fatte e agli strumenti messi in campo per rendere più equo l’accesso al cibo».