Continua lo sfruttamento dei lavoratori, comprese donne in gravidanza e bambini, da parte dell’industria del pesce in scatola. Una petizione in questi giorni accusa il Thai Union Group, proprietario del marchio Mareblu.
Le testimonianze raccolte tra i bambini-schiavi in un uno stabilimento poco fuori Bangkok sono agghiaccianti: costretti a pelare gamberetti per sedici ore al giorno, anche se ammalati, sotto la minaccia della violenza, spesso picchiati o privati del cibo o del sonno. Per non parlare delle donne: costrette a lavorare anche dopo un aborto e con un’emorragia in corso. Una serie di inchieste giornalistiche e i report delle organizzazioni non governative, in particolare Greenpeace, inchiodano alle proprie responsabilità il gruppo Thai Union, uno dei principali produttori di pesce in scatola del mondo (in Italia possiede il marchio Mareblu)i.
Le violazioni dei diritti umani da parte dei grandi marchi di pesce in scatola sono sotto osservazione da tempo e, nonostante le promesse di arrivare a vendere “un tonno al 100% sostenibile”, sbandierato nei comunicati stampa e nei confronti dei consumatori, lo sfruttamento dei lavoratori continua, così come la pesca illegale con mezzi che impoveriscono il mare e la sua fauna. A essere sfruttati sono spesso i migranti, più deboli in quanto privi di tutele giuridiche.
La Thai Union ha fatto sapere attraverso il proprio ufficio stampa che “ogni sfruttamento dei lavoratori migranti è inaccettabile”, dopo un’inchiesta dell’Associeted Press che ha scoperto che i gamberetti in vendita nei supermercati americani erano prodotti in Thailandia da una fabbrica erano sfruttati anche bambini. L’impianto apparteneva a uno dei fornitori di Thai Union, Okeanus, con il quale, dopo le denuncie, il gruppo ha rotto i rapporti.
“L’inazione dell’intera industria del tonno e le vane dichiarazionin da comunicato stampa non sono più accettabili” ha detto il direttore negli Stati Uniti della campagna “Oceani” di Greenpeace John Hocevar.”E’ ora che Thai Union faccia pulizia lungo tutta la catena di produzione”.
Lo scorso 14 dicembre gli attivisti di Greenpeace sono entrati in azione a Milano per denunciare le attività di pesca distruttiva di Mareblu, definito un pericoloso “killer del mare”. L’organizzazione ha proiettato su alcuni edifici simbolo di Milano un video che mostra il logo di Mareblu che emerge dal mare trascinando con sé una rete piena di tonni, squali e tartarughe morenti.La scelta di Milano non è stata casuale: il capoluogo lombardo è infatti sede di molte tra le aziende leader del mercato italiano del tonno in scatola, compresa Mareblu.
A fine ottobre Greenpeace Italia ha pubblicato la quarta edizione della sua classifica “Rompiscatole”, con cui periodicamente valuta la sostenibilità delle conserve di tonno vendute sul mercato italiano. Mareblu è sceso in classifica in fascia rossa: bocciato sia per le violazioni dei diritti dei lavoratori che per le sue politiche di approvvigionamento. Nei suoi prodotti viene infatti usato per lo più tonno pinna gialla proveniente dall’Oceano Indiano, dove lo stock è ormai sovrasfruttato e pescato con metodi distruttivi, come le reti a circuizione usate con sistemi di aggregazione per pesci (Fad).
In Italia la petizione di Greenpeace rivolta a Mareblu ha superato in poche settimane le 48 mila firme. Un segnale forte che mostra come i consumatori italiani siano sempre più attenti e orientati verso la scelta di prodotti che non abbiano impatti negativi sull’ambiente e sulle persone.
Per scoprire quanto è sostenibile la tua scatoletta di tonno preferita consulta la classifica “Rompiscatole” e la petizione di Greenpeace su http://www.tonnointrappola.it/