L’indice globale della fame presentato oggi rintraccia nelle disuguaglianze le cause profonde della malnutrizione. Il 16 ottobre il Papa alla Fao parlerà del nesso fra migrazioni ed emergenza alimentare e ribadirà che la fame non è una fatalità
Si dice che “la fame non guarda in faccia a nessuno”. In realtà le cose non vanno così: la fame si manifesta in modo più intenso e persistente tra le popolazioni più vulnerabili e svantaggiate, va di pari passo con i conflitti e le ingiustizie sociali.
È la conclusione alla quale giunge l’Indice globale della fame 2017, pubblicato oggi congiuntamente da International Food Policy Research (IFPRI), Concern Worldwide e Welthungerhilfe e presentato a Bergamo da Cesvi.
Il rapporto, giunto alla dodicesima edizione, assegna un indice numerico (Global Hunger Index) ai Paesi del mondo. E dice, innanzitutto, che la situazione nel mondo è migliorata rispetto al 2000: il GHI del 2017 è del 27% più basso rispetto a quello di diciassette anni fa. Tuttavia, il livello globale della fame, misurato in 119 Paesi, resta ancora molto alto con grandi differenze tra le diverse nazioni e persino entro gli stessi confini.
Oltre a confermare i dati Onu sul numero di affamati (815 milioni nel mondo, in aumento rispetto al 2015) l’Indice globale della fame è interessante perché analizza le situazioni e i contesti dove l’emergenza alimentare è più allarmante.
È significativo, innanzitutto, quello che il rapporto non include. Ci sono 13 Paesi dove i dati non sono calcolabili, a causa di gravi problemi politici e sociali. Si tratta di «situazioni estremamente preoccupanti», «è il caso, nello specifico della Libia dove i conflitti armati e l’instabilità politica pregiudicano la sicurezza alimentare di circa 250.000 sfollati interni, della Siria martoriata da 7 anni di guerra civile con effetti devastanti sull’alimentazione per oltre la metà della popolazione, del Sud Sudan dov’è stata dichiarata quest’anno una grave carestia e della Somalia che, colpita da una grave siccità, si trova sull’orlo di una carestia con 3 milioni di persone (su 11 milioni in totale) in situazione di crisi o di insicurezza alimentare». In tutti questi casi si tratta di Paesi in conflitto e caratterizzati da una profonda instabilità istituzionale. Anche la FAO, meno di un mese fa ha evidenziato che degli 815 milioni di persone che soffrono la fame ben 489 milioni (oltre la metà) vivono in Paesi colpiti da conflitti.
«La fame e la disuguaglianza sono strettamente interconnesse», sottolinea l’Indice globale della fame. «Tre quarti dei poveri del mondo vive in aree rurali, dove la fame è tendenzialmente più forte. La povertà, che è una delle manifestazioni più evidenti di disuguaglianza, è forse la più legata alla fame».
Ma la fame è anche una questione di potere: è la tesi che sta alla base del saggio di Naomi Hossein, ricercatrice presso l’Institute of Development Studies, contenuto nell’edizione 2017 dell’Indice. «La distribuzione irregolare della fame e della malnutrizione in tutte le sue forme affonda le radici nella disparità di potere sociale, politico ed economico. Le crisi alimentari più recenti hanno colpito fasce di popolazione estremamente vulnerabili e già afflitte da fame e malnutrizione, esposte a violenze, cambiamento climatico e aumento dei prezzi alimentari. E se alla disuguaglianza alimentare si unisce anche la disuguaglianza di genere ecco che donne e bambine rappresentano il 60% degli affamati del mondo».
La fame non è una fatalità, ma «scandalo», «ingiustizia» e «peccato», ha detto Papa Francesco, che quest’anno tornerà a visitare la sede della Fao a Roma il 16 ottobre in occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione. “Cambiare il futuro dell’emigrazione. Investire nella sicurezza alimentare e nello sviluppo rurale” è il tema del suo intervento. Cambiare rotta è possibile, proprio perché la fame non è una fatalità, ma anche una questione di scelte.