In un mondo sempre più squilibrato occorre rimettere la persona e il lavoro al centro. Per evitare traffici e grave sfruttamento e per promuovere un’“economia civile”. Parla l’economista Becchetti
Quaranta milioni di persone vittime di tratta e ridotte in condizioni di vera e propria schiavitù tra cui moltissimi minorenni. Ma anche un misero un per cento della popolazione mondiale che detiene la ricchezza del rimanente 99%. In un mondo sempre più diseguale, un minuscolo manipolo di ricchi ricchissimi vive a fianco di un numero sempre più sterminato di persone che non sono più nemmeno considerate tali, ma mera merce di scambio o strumenti di lavoro. La presentazione del rapporto 2018 di Oxfam, lo scorso gennaio in occasione del vertice di Davos, ha evidenziato nuovamente e con maggior drammaticità i paradossi di un sistema globale che crea vastissime aree non solo di povertà, ma di discriminazione, impoverimento e sfruttamento. Un mondo dove l’82% dell’incremento di ricchezza netta registrato tra marzo 2016 e marzo 2017 è finito nelle tasche di una piccolissima élite di super ricchi, mentre più di metà della popolazione mondiale (3,7 miliardi di persone) non ne ha beneficiato in alcun modo. «Il mondo – sostiene il professor Leonardo Becchetti, docente di Economia politica presso l’Università di Roma Tor Vergata e autore di numerosi libri – ha potenzialità enormi di creare ricchezza, ma non sono ben sfruttate».
Professor Becchetti, che cosa significa esattamente?
«Significa che sistemi economici con gravi diseguaglianze al loro interno producono o crisi finanziarie o conflitti sociali. Ma il dato più impressionante, a mio avviso, è che solo l’1,5 % delle super ricchezze permetterebbe di finanziare l’accesso all’istruzione a tutti i bambini del pianeta».
Non si può più parlare di squilibri Nord-Sud, sempre che questa distinzione abbia un senso…
«Nord e Sud intesi in senso geografico esistevano negli anni Settanta ai tempi della Populorum Progressio. Oggi ogni Paese ha il proprio “Sud”. Pensiamo all’Italia e al fenomeno del caporalato e del grave sfruttamento lavorativo che è presente in molte parti del Paese, dove le imprese locali, per competere con quelle straniere, hanno importato precarietà e, appunto, gravi forme di sfruttamento. Inoltre, anche nei Paesi sviluppati e ad alto reddito, se il benessere non si diffonde nelle fasce medio-basse della popolazione, si creano le condizioni per il dilagare di populismi o la ricerca di soluzioni facili».
Quali sono i Paesi o le aree del mondo più “diseguali”?
«La Cina è un esempio. Qui esiste ancora uno zoccolo duro di lavoratori nelle campagne che sono veramente poveri e che tengono bassi i costi del lavoro. Ma anche grandi Paesi come gli Stati Uniti sono al loro interno profondamente diseguali. Quelli invece dove c’è maggiore uguaglianza sono principalmente quelli scandinavi. Molto dipende anche dal tipo di politiche che vengono decise e messe in atto, come la progressività fiscale o la creazione di reti di protezione per fasce più basse della popolazione».
Dentro questo mondo così “squilibrato” si creano condizioni di sfruttamento se non di vera e propria schiavitù sempre più gravi e diffuse…
«Certamente. Ma la questione veramente centrale non è nazionale ma globale. Se si vogliono cambiare le cose si devono cambiare, ad esempio, le regole del commercio internazionale. Quasi il 40% dei lavoratori nel settore tessile in Asia ha stipendi che sono inferiori al salario minimo. E il salario minimo è un quarto di quello necessario alla sopravvivenza. Questo vuol dire anche concorrenza a basso costo e dumping sociale nei confronti dei nostri lavoratori. Una cosa che non fa bene né a loro né a noi. Occorre invertire la corsa al ribasso del costo del lavoro. E mettere al centro, oltre alla riforma del commercio internazionale, anche la sostenibilità sociale e ambientale. Se miglioriamo solo qui e non altrove, la situazione potrebbe persino peggiorare, perché le nostre aziende saranno sempre meno competitive e tenderanno a dislocare. Occorre lavorare per gli ultimi per migliorare tutti».
In che modo?
«Per quanto riguarda il nostro Paese, attraverso tre strumenti per creare massa critica: quello che chiamo il “voto col portafoglio” dei cittadini, sorretto da strumenti che permettono di valutare la responsabilità sociale dei prodotti; il “voto col portafoglio” dello Stato, che nelle gare d’appalto non deve scegliere l’offerta al massimo ribasso a discapito del lavoro e dell’ambiente o aziende che non pagano le tasse, ma deve privilegiare l’offerta più vantaggiosa in base a criteri sociali e ambientali; infine, la riforma dell’Iva che deve essere utilizzata come strumento che premia le filiere più sostenibili e gli standard minimi di tutela del lavoro».
Lavoro e ricchezza sembrano però mondi che si allontanano…
«Certo, una parte della ricchezza dipende dalla rendita. Ma il problema fondamentale è la tassazione sulla ricchezza, se vogliamo premiare il lavoro e favorire la ridistribuzione. Chi ha la ricchezza ovviamente si oppone. Ad esempio, il progetto per aumentare risorse proprie dell’Europa attraverso la digital tax e la tassa sulle transazioni finanziarie è molto difficile da realizzare. Specialmente la tassazione sulla ricchezza finanziaria è molto difficoltosa perché c’è una forte opposizione».
Ma anche tra lavoro e lavoro si allarga il gap…
«La produttività in Occidente è aumentata, ma i salari non sono cresciuti in proporzione. E i lavoratori hanno perso potere contrattuale. Questo è avvenuto soprattutto per i lavoratori a media e bassa qualifica. Nella competizione globale c’è una differenza molto forte tra coloro che traggono beneficio dalla globalizzazione e hanno un forte potere contrattuale e coloro che vengono risucchiati verso il basso. Questa forma di diseguaglianza si “cura” attraverso la formazione e l’istruzione. I giovani devono avere desideri che li spingano a salire la scala delle competenze e dei talenti».
Recentemente le Nazioni Unite hanno enfatizzato molto anche la differenza salariale tra uomini e donne. In media una donna guadagna il 23% in meno di un uomo. Siamo ancora in un mondo fortemente segnato dalle disparità di genere?
«Questo dipende da un mix di fattori innanzitutto culturali. Molti Paesi non sempre sono orientati verso la parità di genere. Ma anche laddove esiste una cultura più radicata e diffusa delle pari opportunità ci sono ancora molte difficoltà legate alle differenti condizioni di vita. Insomma, globalmente parlando, l’uguaglianza di genere ancora non esiste».
Anche il fenomeno delle migrazioni si lega a doppio filo alla questione delle diseguaglianze. Milioni di persone si spostano per cercare condizioni di vita migliori. Come affrontare questo fenomeno?
«La cosa fondamentale è, appunto, combattere le diseguaglianze che sono all’origine delle migrazioni. Quasi sempre c’è un divario molto forte tra i Paesi di origine e quelli di destinazione dei migranti. I quali contribuiscono enormemente a cercare di ridurre quel divario, inviando grandi somme di denaro sotto forma di rimesse, che aiutano a migliorare le condizioni economiche dei loro Paesi. D’altro canto, nel recente passato abbiamo visto molte persone emigrare da Paesi come l’Albania e la Polonia e adesso non lo fanno più perché le condizioni socio-economiche sono nettamente migliorate. Così come nessuno emigrava dalla Siria prima che scoppiasse la guerra. Allo stesso modo milioni di migranti forzati sono fuggiti dalle molte aree di crisi presenti nel mondo».
Oggi un’altra questione cruciale è quella dell’ambiente.
«Questa è un’altra grande sfida. Basti pensare, solo per fare un esempio, all’enorme pressione che esiste nella regione del Sahel e, in particolare, nella zona del lago Ciad. Lago che non esiste praticamente più. Per questo, le popolazioni del suo bacino sono state costrette a spostarsi perché non hanno più risorse nei loro luoghi di origine. E non potranno certamente farvi ritorno».
Che cosa fare? Lei parla spesso di buone pratiche, ma anche di buone politiche…
«Quella che io definisco “economia civile” è un paradigma che si regge su quattro pilastri: Stato e mercato da soli non possono risolvere tutti i problemi, se non sono affiancati da cittadinanza attiva e imprese responsabili. Cittadinanza attiva è, ad esempio, quello che definivo il “voto col portafoglio”, ma è anche scegliere responsabilmente cosa e come consumare nonché come investire i propri risparmi, privilegiando, ad esempio, i fondi etici. Ma la cittadinanza attiva si concretizza anche nella comunicazione e sui social, per alzare il livello culturale dell’opinione pubblica e combattere fake news e hate speech, falsità e odio dilaganti. Ma è fondamentale anche la gestione dal basso dei beni comuni. Solo così, partendo dal basso, possiamo costruire qualcosa di nuovo e di più equo».
Ha ancora senso e valore il concetto di bene comune?
«Assolutamente sì. Non può che essere questo l’orizzonte. Sempre che ci si intenda su che cosa significa “bene comune”. Da credente, bene comune è quello che è contenuto nella dottrina sociale della Chiesa. In un’ottica laica, è definito dall’articolo 3 della Costituzione, in cui si specifica che lo Stato deve rimuovere tutti gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, creando le condizioni perché ciascuno possa realizzarsi pienamente».