Grazie ai sistemi mobili di pagamento e a nuove piattaforme digitali, su Internet è possibile scambiarsi non solo informazioni, ma anche beni e servizi. È vera economia della condivisione? Cinque domande e risposte a Ivana Pais, docente di sociologia economica all’Università cattolica
Cosa si intende con questa parola?
Per sharing economy si intende lo scambio di beni e servizi fra persone, principalmente su piattaforme digitali. Si può tradurre con “economia della condivisione”, un’espressione che richiama esperienze di lunga tradizione, soprattutto in Italia, dal mutualismo alle cooperative fino alle imprese sociali. Non deve necessariamente avvenire sul web ma, di fatto, internet ha dato un impulso nuovo a questo modello economico. Il denaro, inoltre, non è l’unica unità di misura che regola lo scambio. Sulla piattaforma “Time Republik”, per esempio, gli utenti mettono a disposizione quello che sanno fare in cambio di ore di tempo, che possono utilizzare a loro volta per “retribuire” altri servizi.
Quando è esploso il fenomeno?
La crisi economica è stato il fattore scatenante ma non determinante. Di fatto la sharing economy ha legittimato una nuova cultura, che poi è stata veicolata dal digitale. In Italia ci sono 186 piattaforme attive. Erano 138 nel 2014. Servono a condividere spazi di lavoro (coworking), gli spostamenti (car sharing), ma anche progetti per migliorare la società o il proprio quartiere (crowdfunding e social streets). Su queste piattaforme viene meno la separazione fra chi produce beni o servizi e chi li utilizza, c’è una contaminazione di ruoli. Chi offre un bene o un servizio non è necessariamente un professionista, ma un utente della rete che mette a disposizione qualcosa di proprio, per esempio l’auto (un esempio è Blablacar.it) o la seconda casa, come succede su Airbnb.it.
Quali sono i vantaggi?
Ricollegare i legami economici a quelli sociali è il vero vantaggio dell’economia collaborativa. Veniamo da anni in cui il mercato si è sempre più spersonalizzato. Abbiamo perso la dimensione dello scambio, del legame sociale. Queste piattaforme, in potenza, ricostruiscono la relazione come necessaria allo scambio di beni e servizi. Non è una forma di reciprocità pura, un legame forte, ma un tipo di relazione più corta e veloce, un legame leggero. Per fare un esempio, è come andare dal panettiere sotto casa invece che in un grande supermercato con la cassa automatica. Con il panettiere ci si saluta, si scambiano poche parole: è un legame leggero ma contribuisce a costruire quel tessuto sociale di cui tutti abbiamo bisogno.
Quali i problemi da risolvere?
Approfittando di questo fenomeno, sono sbarcate sulla rete aziende che utilizzano il linguaggio dell’economia collaborativa, ma di fatto puntano al profitto e hanno alle spalle venture capitalist di altissimo livello. Sono compagnie che vendono servizi su internet, aggirando così le regole del mercato e i diritti dei lavoratori. Noi ricercatori abbiamo messo a punto dei criteri per definire cos’è la sharing economy e una delle caratteristiche è che siano gli utenti a fissare il prezzo delle transazioni, anche nel caso di prestazioni lavorative. Per fare un esempio: Uber, che offre macchine con conducente, è un’azienda che vende un servizio on line, non una piattaforma di sharing economy.
Inizia un’economia più solidale?
Senz’altro le nuove piattaforme collaborative nascono dal bisogno di un’economia più umana e relazionale. E la crisi è stata un’occasione per sviluppare nuovi modelli economici. Ora bisognerà verificare in che misura tali esperienze siano realmente portatrici di innovazione sociale, ovvero riescano a reintegrare la dimensione sociale nella sfera economica, dando vita a nuove forme di reciprocità e condivisione che prima non erano possibili. L’eredità positiva della crisi potrebbe essere un cambiamento culturale. Alcune di queste piattaforme hanno permesso di sperimentare forme di consumo più consapevoli basate sul riuso invece che sull’acquisto e sull’accesso piuttosto che sulla proprietà.