Sprechi, rifiuti, inquinamento, lavoratori sfruttati e aziende delocalizzate. Dietro a un capo di abbigliamento a prezzi stracciati, si nasconde una storia amara, che Dario Casalini racconta in un libro
Nel mondo ogni anno vengono creati oltre 2 miliardi di rifiuti tessili, che finiscono per lo più nelle discariche dove vengono sotterrati o inceneriti. Per produrre quei capi, uno studio rivela che nel 2015 l’industria tessile ha immesso nell’atmosfera 1,2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, pari alla CO2 emessa da tutti gli Stati dell’Unione Europea. Bastano questi due dati per farci capire che qualcosa non va: questo settore industriale, che è il terzo al mondo, impatta troppo sui fragili equilibri del nostro pianeta.
E di quello che sta succedendo siamo tutti in qualche modo complici. Troppo spesso cediamo alla tentazione di comprare, per pochi euro, una nuova maglietta o un paio di jeans, che magari dopo qualche mese butteremo via, o infileremo in armadi già stracolmi di vestiti. L’ha detto anche Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’: non basta più raccontarcela che siamo sensibili all’ambiente, bisogna cambiare “le abitudini nocive di consumo”. L’essere umano, secondo il Papa, “si arrangia per alimentare i suoi vizi autodistruttivi: cercando di non vederli, lottando pere non riconoscerli, rimandando le decisioni importanti, facendo come se nulla fosse”.
È ora di aprire gli occhi, e diventare consumatori più consapevoli. È questo il messaggio del libro “Vestire buono, pulito e giusto” di Dario Casalini, pubblicato da Slow Food Editore. La fast fashion negli ultimi decenni ci ha coinvolto in una folle corsa a rinnovare i nostri armadi, stimolandoci con nuove collezioni che escono al ritmo di una o due volte al mese, a basso prezzo. Comprare è un’esperienza gratificante, che soddisfa un continuo bisogno narcisistico di novità, e che finisce per spingere spesso i giovani – ma non solo loro – a usare un capo una o due volte per poi sostituirlo. Questo modello ha finito per contagiare anche i grandi marchi e a caratterizzare tutto il settore del tessile attuale.
Dario Casalini ci aiuta a capire cosa c’è dietro alle nostre scelte di acquisto. E non lo fa demonizzando la moda: anche lui è un imprenditore tessile. Dopo essere stato professore universitario, ha scelto di dedicarsi all’azienda di famiglia, dove cerca di seguire un modello produttivo basato sull’uso di fibre naturali, sul rispetto dei lavoratori, sulla qualità e sulla produzione in Italia. «Coprirsi è un bisogno essenziale dell’essere umano per sopravvivere», spiega. «Lavorando nel tessile, mi sono reso conto che la filiera è ancora molto nascosta, e non esiste una descrizione semplice. Da qui l’idea di parlarne a tutti. Il cambiamento non è impossibile: basti pensare a che cosa è successo in Italia con il cibo, che negli ultimi decenni ha vissuto una parabola pazzesca. Oggi c’è un’altissima attenzione alla qualità alimentare».
Tutti i marchi della moda sembrano sensibili all’ambiente e parlano di sostenibilità. Non è già un passo in avanti?
«È inutile girarci intorno: la salvezza del pianeta richiede un cambiamento di paradigma produttivo. Questo tema rivoluzionario è stato assorbito dal sistema. Oggi esistono certificazioni che consentono una “ripittura di facciata” per poter avere un argomento di comunicazione. Ma è spesso greenwashing. Garantire la sostenibilità di tutta un’intera filiera è complesso. Non basta però cambiare un tassello della produzione per essere sostenibili, è tutto il processo che va modificato».
Nei nostri acquisti, siamo guidati dalla ricerca del bello. Lei propone anche altri aggettivi: sano, pulito, giusto e durevole. Cosa significano?
«Dobbiamo considerare un capo di abbigliamento in modo olistico, dalla fibre alla produzione e allo smaltimento. Sano vuol dire che non ha solo una funzione estetica, ma deve proteggerci. Dobbiamo tenere conto se è prodotto con fibre naturali o sintetiche, che impatto questi materiali hanno sull’ambiente per essere prodotti e quale effetto hanno su di noi. Pulito implica la sostenibilità ambientale in tutte le fasi della filiera, mentre giusto indica l’impatto sulla comunità sociale. Nella confezione e nella cucitura, il lavoro manuale è ancora essenziale. Per questo motivo si punta a risparmiare su questo passaggio, abbassando il costo della manodopera. Da qui la spinta a delocalizzare il lavoro dove costa meno. Durevole ci riporta a un paradosso del settore della moda, unico ambito in cui l’evoluzione verso il meglio è stata un’involuzione sul tema della durata del prodotto. C’è un’obsolescenza programmata, stimolata dal cambiamento continuo delle mode, che porta a una sovrapproduzione e a una produzione di rifiuti tessili, non sempre facili da riciclare. Se un capo è in misto cotone e poliestere, per esempio, le due componenti sono difficili da separare».
Oltre alla riduzione del costo della manodopera, perché le aziende del tessile scelgono di delocalizzare?
«I risparmi ottenuti sul costo del lavoro liberano risorse da investire nella comunicazione, nel marketing, nella pubblicità per conquistare il consumatore. Si spende denaro per avere negozi attraenti nelle location giuste delle città, si pagano nuove figure professionali – come gli influencer – per avere rilievo sui social».
E nei Paesi poveri, dove abbiamo spostato di fatto le fabbriche, cosa succede?
«Si pagano innanzitutto alti costi ambientali: produrre in Europa costa di più non solo per il costo dei lavoratori, ma anche perché abbiamo norne precise sull’inquinamento che vanno rispettate e farlo è un costo. È più facile spostare il problema in un Paese che ha leggi più blande, trasferendo altrove il tema dello smaltimento. Questa sistema porta poi a una distruzione dell’economia locale. Sii può fare un parallelo con le colture intensive in epoca coloniale che hanno danneggiato la produzione locale. Oggi queste attività, allo stesso modo, generano un’occupazione senza futuro. La gente è sottopagata, e le imprese offrono lavoro solo finché hanno convenienza, poi si spostano altrove, dove possono continuare a pagare poco».
Nel libro, lei riporta un dato impressionante: nel mondo un lavoratore su sei è occupato nell’industria tessile, ma meno del 2 per cento guadagna un salario sufficiente a condurre una vita dignitosa.
«La cosa grave è che questo fenomeno dipenda dal mondo occidentale. Noi l’abbiamo già vissuto: nell’Ottocento, come raccontava Dickens, era normale far lavorare i bambini nel tessile in Inghilterra. Trovo moralmente inaccettabile che noi lo facciamo rivivere ad altri».
La dicitura “made in Italy” ci garantisce che il prodotto è fatto in Italia?
«Per averla basta effettuare alcune fasi di lavorazione in Italia – stirare il prodotto, mettere un bottone o un’etichetta – il cui costo giustifica il “made in Italy”, mentre il resto è fatto all’estero. C’è anche un problema di controlli».
Cosa possiamo fare concretamente per cambiare questa situazione?
«Siamo consumatori e possiamo avviare un processo di cambiamento con le nostre scelte. Una domanda di capi sostenibili può indirizzare l’industria verso un modello diverso, come è accaduto nel settore alimentare. Dobbiamo essere consapevoli che due euro per una maglietta sono un prezzo troppo basso, che nasconde dei costi occulti, sociali e ambientali, che vengono scaricati altrove. Dobbiamo poi recuperare un rapporto di fiducia con il negoziante che vende con competenza e che conosce la storia del prodotto che propone, oppure documentandoci online».