Una giovane operaia di una fabbrica tessile a Dacca si è battuta per avere gli straordinari pagati e ha poi fondato un sindacato per occuparsi dei diritti delle colleghe. La storia di Daliya Akter è diventata un film dal titolo “Made in Bangladesh” che è uscito il mese scorso in Francia.
Sono passati cinque anni dalla tragedia nell’industria tessile del Bangladesh che produceva per i grandi marchi occidentali. Da allora una campagna internazionale per la sicurezza sul lavoro ha portato a passi avanti importanti. Ma restano ancora grandi marchi che non hanno aderito
Maria Elisabetta Alberti Casellati – eletta qualche giorno fa alla guida del Senato italiano – nel 2007 al Pime di Milano sfilò insieme ad altre parlamentari nell’ambito di una campagna per l’equità nelle condizioni di lavoro nell’industria tessile nel Sud del mondo. Un impegno che ci permettiamo di ricordarle oggi, perché – come recitava l’appello che sottoscrisse in quell’occasione – merita di essere portato di nuovo all’attenzione dei presidenti di Camera e Senato…
Il racconto del direttore di Mondo e Missione dal Bangladesh, dove ha trascorso la Pasqua con i cristiani locali: «Mai come qui ho percepito la realtà di una comunità cristiana che coniuga così efficacemente il culto, la liturgia e le attività pastorali all’azione sociale e alla carità quotidiana e silenziosa»
Alla cena della strage di Dhaka, insieme agli italiani, c’era anche Ishrat Akhond, 45 anni, che aveva condotto una campagna con l’Unicef contro il lavoro minorile. Uccisa anche lei per essersi rifiutata di recitare il Corano davanti agli aguzzini
Conosceva bene molte delle vittime della strage Giuseppe Berto, imprenditore padovano da quasi vent’anni in Bangladesh, amico di tanti missionari. Per «Mondo e Missione» nel 2009 aveva scritto una testimonianza che – riletta oggi – può aiutare ad andare oltre certe semplificazioni sugli imprenditori tessili occidentali che producono in Bangladesh