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Capovolgere?

Ai superiori degli istituti religiosi riuniti nella consueta assemblea semestrale, l’oratore spiega diligentemente che cosa sono le “Comunità Cristiane di Base” e quali ne siano i pregi – cioè cose che tutti sanno già per averle sentite spiegare molte volte in sedi diverse. Il prete che spiega ha le carte in regola, perché da anni – unico nell’arcidiocesi di Dhaka – pratica questo modello pastorale, con buoni risultati. Tuttavia, quando viene trasferito da una parrocchia all’altra, mentre incomincia daccapo nella nuova sede, il suo successore nella sede precedente lascia morire di inedia le comunità che lui aveva fondato. Alla richiesta di uno degli uditori: “Ora che ci ha presentato la teoria, ci parli della sua esperienza pratica” l’oratore risponde in modo vago e generico… Da decenni si presentano queste “Comunità”, tutti ascoltano attentamente, fanno domande, approvano, propongono commissioni, e i Vescovi le includono tra le “priorità” nei loro piani pastorali, con risultati a dir poco deludenti. Colpa della pigrizia del clero, che non ha voglia di pensare, immaginare, tentare qualcosa di diverso, perché richiederebbe maggiore impegno e creatività? Senza dubbio, ma c’è dell’altro. Sarebbe forse necessario vedere queste “Comunità Cristiane di Base”, concepite e sperimentate in altri contesti storici e culturali, non come un modello da sovrapporre e applicare tale e quale alla realtà che esiste, ma capovolgere l’impostazione, e considerare quali strutture e organizzazioni sociali di base esistono, per chiedersi come evangelizzarle e passare da comunità di base a comunità cristiane di base. Le strutture dei villaggi, diverse per ogni popolo, hanno alle spalle una lunghissima tradizione, e se è vero che si stanno logorando di fronte alla modernità che avanza al galoppo, è pure vero che non sono per nulla azzerate. Ignorarle, significa condannare la proposta delle “Comunità Cristiane di Base” all’inefficacia.

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