Don Autuoro: «Dopo Firenze, senza paure»

Don Autuoro: «Dopo Firenze, senza paure»

Il direttore dell’Ufficio per la cooperazione missionaria tra le Chiese sul Convegno ecclesiale nazionale segnato nei giorni scorsi dall’intervento del Papa. «Ci ha invitato a vivere tra la gente e ascoltarla. Facciamo più fatica a donare vocazioni al mondo? Troviamo strade nuove, anche attraverso una maggiore collaborazione tra le diocesi»

 

L’eco degli attentati di Parigi ci ha costretto in fretta tutti a voltare pagina. Ma il Convegno nazionale della Chiesa italiana, chiusosi a Firenze proprio venerdì e segnato dal discorso fortissimo pronunciato da papa Francesco, è un punto di riferimento importante per la Chiesa italiana. Proseguiamo allora la riflessione su che cosa dice alla missione il Convegno di Firenze con questa intervista a don Michele Autuoro, direttore dell’Ufficio Cei per la Cooperazione missionaria tra le Chiese.

Don Autuoro da dove ripartire dopo il discorso pronunciato a Firenze dal Papa davanti alla Chiesa italiana?

«Ci ha ricordato che quando si parte ci si mette innanzi tutto in ascolto di nuovi mondi, di nuove realtà. Penso a tutto il discorso dell’inculturazione. Credo che occorra un’attenzione non solo ad uscire, ma ancora di più a entrare in un popolo, come ci dice la Scrittura. Il Papa a Firenze ha proposto l’immagine dei vescovi che vengono sostenuti dalla gente, con l’immagine molto bella del vescovo sulla metropolitana che sta in piedi grazie alle persone vicine. Ecco, questa è la nostra realtà di missionari: essere uno dei tanti, nella folla, come Gesù al Battesimo. Penso che da Firenze venga un invito a non abbandonare questa strada».

L’Italia di oggi, però, fa sempre più fatica a guardare e ascoltare chi vive oltre i propri confini. Perché?

«Non dobbiamo avere paura, soprattutto oggi. Dobbiamo coltivare la simpatia per il mondo, attraverso un amore incarnato, compassionevole. Gesù si è compromesso con il mondo e lo ha fatto con grande semplicità. A volte è questo che ci manca: la capacità di porci davvero con empatia, di metterci in ascolto reale, abbandonando i nostri schemi, le nostre presunzioni. Solo così possiamo capire davvero il mondo».

Intanto però le vocazioni donate al mondo nella Chiesa italiana sono sempre di meno. E se ne parla anche poco. Come affrontare questo fenomeno?

«Anche di questo non dobbiamo avere paura, ma dire con chiarezza che la conservazione diventa sterile. Siamo preoccupati di conservare quanto abbiamo, non vogliamo rischiare, senza renderci conto che il dono diventa già restituzione. E lo diventa per tutta la nostra Chiesa. Il missionario che parte poi ritorna: papa Francesco è già un esempio di questa restituzione. E pensiamo a come ci sta mostrando una Chiesa che vuole camminare con il mondo, come direbbe papa Giovanni non per condannarlo ma per capirlo Quindi sì, c’è questa fatica oggi a comprendere che le partenze dei missionari sono e saranno una ricchezza per noi come lo sono state per il passato. Ma anche quanto sta succedendo nel mondo ci dice che dobbiamo allargare i nostri confini, ricordarci che la Chiesa è universale, che ogni prete è ordinato non solo per una Chiesa locale ma per il servizio a tutta quanta la Chiesa universale. Si tratta semplicemente di obbedire alla volontà di Gesù che dice: mi sarete testimoni fino agli estremi confini della terra. Poi – certo – potremo sperimentare anche nuove via di partenza, soprattutto per quelle Chiese che non hanno una tradizione in questo senso. Per esempio quella di diocesi che vivano insieme la missione ad gentes mettendo in comune i propri sacerdoti anche i laici».

Ci sono già in Italia esperienze in questo senso?

«C’è un’unica esperienza: quella del Triveneto con la missione in Thailandia: sono sette sacerdoti ed è un’esperienza ormai più che decennale. Insieme le diocesi coordinano l’esperienza, c’è un vescovo responsabile, c’è anche un segretario, un laico. Vengono condivisi anche i progetti, gli aspetti economici, tutto quello che può servire. E man mano che qualcuno rientra le diocesi mettono a disposizione qualche altro sacerdote per partire. Sono esperienze nuove, che hanno anche le loro difficoltà: quando ci si mette insieme c’è tutta la fatica di visioni magari diverse. Però potrebbe essere la strada per incoraggiare tante diocesi, penso ad esempio a quelle diocesi del Sud Italia che da questo punto di vista sono più povere di esperienze di sacerdoti fidei donum. Alcuni nel passato sono partiti ma poi non c’è stato ricambio, nuove partenze, non si è assicurato uno scambio tra Chiese sorelle. Potrebbe essere un incentivo».

Come la presenza in Italia di comunità di cristiani provenienti da altri contesti può essere oggi un dono che ci aiuta ritrovare l’apertura al mondo?

«È giusto parlare di comunità etniche, perché devono mantenere la loro identità, i loro ritmi anche culturali e liturgici. Però dobbiamo anche cominciare a parlare di un’integrazione nelle nostre comunità: troppo spesso rimangono sempre stranieri. Gli spazi che concediamo non possono essere solo fisici, ma devono coinvolgere i consigli pastorali, la catechesi, la famiglia. Il punto è che ascoltiamo ancora troppo poco le loro storie: non li conosciamo, ma tanti hanno anche storie di fede, nelle loro comunità partecipavano attivamente, pensiamo a chi viene dall’America Latina. È l’armonia delle diversità, di cui parlava don Tonino Bello. Perché anche loro non possono dare un contributo alle nostre realtà? Ciò che manca è la relazione a tu per tu con le persone. Quando c’è relazione, amicizia, stima, questi fratelli possono aiutarci davvero molto ad aprirci a mondo».