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Facebook

Facebook, sito (così non si chiama, ma mi capite: non conosco il termine esatto) di un giovane buddista di una cittadina del Cittagong Hill Tracts. Un suo giovane conoscente musulmano quasi analfabeta che gestisce un negozietto di riparazioni computer va a curiosarvi, e trova frasi e immagini che ritiene offensive nei confronti del Profeta. Scatta il passaparola, e il negozietto diventa un fervoroso centro di indignazione religiosa e politica. Il buddista fiuta il pericolo e scappa con moglie e figlio, ma nel giro di pochissimo tempo centinaia di giovinastri che si rifanno a partiti filoislamici, e gruppi  di sbandati Rohingya, mettono a ferro e fuoco almeno 4 templi buddisti, 3 templi hindu e una quarantina di case di famiglie buddiste. La gente fugge, altri facinorosi arrivano anche da lontano, le forze dell’ordine rimangono passive, si limitano ad arrestare la mamma e la zia del buddista “bestemmiatore” e le tengono in carcere un mese senza accuse, i politici tacciono. Poi inizia la reazione di associazioni civili, organizzazioni, partiti politici. La maggioranza accusa l’opposizione di essere la causa dei disordini, l’opposizione accusa la maggioranza di opprimere le minoranze. Alcuni giornalisti indagano per conto loro e scoprono che il testo messo su facebook in realtà non era del buddista, ma era stato inserito apposta dal giovane musulmano – ora ricercato con mandato di cattura. Ci sono manifestazioni e giornate di riflessione in scuole e università, anche raccolte di fondi per risarcire i danni. Intanto però si riaccende il furore dei birmani buddisti in Myanmar, contro le minoranze islamiche Rohingya, che fuggono in Bangladesh. Specularmente, in Myanmar i buddisti opprimono i musulmani e in Bangladesh i musulmani opprimono i buddisti – come in passato i massacri reciproci di hindu e musulmani hanno più volte insanguinato le regioni di confine fra India e Pakistan.

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