Domenica 18 ottobre è la Giornata Missionaria Mondiale. Una riflessione sulla missione, dal Myanmar. «Nella missione il punto non è capire, dedurre o fare qualcosa, quanto “lasciar-essere Dio”, così com’è. E lasciar-fiorire la Grazia»
Scrivo da Taunggyi, nel Myanmar orientale, a 1400 metri sopra il livello del mare. Qui, anche il clima tropicale si stempera e lascia spazio a una brezza piuttosto frequente e non tanto leggera. In questi giorni ho di fronte a me 59 seminaristi impegnati nel loro anno di spiritualità. Anno di discernimento e preghiera che si colloca tra il biennio filosofico e il quadriennio teologico. Il corso che mi è stato affidato ha per oggetto niente meno che il mistero di Cristo. È la terza volta che ho questa opportunità e, anno dopo anno, si impone la necessità di approfondire il mistero che ha dato origine a tutto, quello della Santissima Trinità. Sembra paradossale, ma l’esigenza più obiettiva in questi giorni birmani non attiene a progetti pratici e certo importanti per lo sviluppo del Paese, ma al bisogno di un impatto con la Rivelazione di Dio “così com’è”. Di conoscere Dio in quanto Dio, come Gesù ce lo ha rivelato. Nulla di meno. Di fronte a 59 ragazzi che pensano di dare la loro vita a Cristo non posso tergiversare con una teologia approssimativa. Sarebbe come portarli al largo e poi lasciarli in balia dei venti.
Il Myanmar è un Paese a maggiornaza buddista. La famosa Shwedagon Pagoda in Yangoon, maestosa e frequentatissima, mi dice che qui non occorrono altre religioni. I trecentomila monaci che animano le migliaia di monasteri sparsi in tutto il Paese e che ogni mattina escono presto per la questua quotidiana in fila, dal più piccolo al più grande, sono altrettante ragioni per non insinuare alternative religiose inutili o che debbano necessariamente fiorire sulle ceneri di qualcos’altro, tolto di mezzo. Eppure, eccomi a introdurre 59 seminaristi al mistero di Cristo. Perché? Dico subito che la Missione se ha un “perché”, esso è a “monte”. Riposa nel mistero di Dio, non nell’anima dell’uomo e nelle sue attese di salvezza, e nemmeno nelle pretese e/o pratiche ecclesiali che misurano e spesso riducono l’agire della Grazia.
Mi lascio aiutare in questa breve riflessione da una rosa. Quella rosa che secondo A. Silesius, mistico del ‘600, “è senza perché; fiorisce poiché fiorisce”. Così è la Missione della Chiesa. Che non può fondarsi solo su un “principio di ragione sufficiente”, un principio “da fornire”, una ratio reddenda “da porre”, o “imporre”, destinata presto a trasformarsi in “pretesa”. Servirebbe solo a porci al sicuro dalle continue obiezioni dei tempi moderni, e dai nostri frequenti dubbi di fede. Nei secoli scorsi, infatti, tale “ragione sufficiente” era la salvezza delle anime che, al di fuori della Chiesa, si sarebbero tutte dannate; ma ora? Quando riduciamo l’indagine sul fondamento, alla ricerca di un simile principio, cerchiamo in realtà una ragione che ci rassicuri, che sia “sufficiente” garanzia, un sufficere che poi porti con sé un efficere e un perficere ma, nota giustamente Heidegger, questi ultimi sono termini che rimandano a un facere, un fare o un produrre, nostro! Così facendo non arriveremo mai a pensare al “perché” della Missione in modo adeguato al suo fondamento, cioè al Mistero da cui scaturisce. Il nostro facere prenderebbe il sopravvento. Allora, per giustificare la Missione ci vorranno i poveri, gli indigenti, e ci vorrà la carità, le opere che, pur importanti, non sono decisive. O gli assiomi teologici come l’extra ecclesiam nulla salus, che per secoli ha motivato, aldilà di ogni dubbio, centinaia di eroici missionari.
Man mano che con i ragazzi di Taunggyi ci addentriamo nel mistero di Dio, ci accorgiamo invece che da un Dio così la missione, come la rosa, “fiorisce poiché fiorisce”, non ha bisogno di altre ragioni, di altri “perché”. Non v’è nulla da fare o dimostrare o imporre, ma solo un Mistero da “lasciar-essere”. Mi accorgo che nell’introdurre i ragazzi al Dio di Gesù Cristo, non devo fare nulla, semplicemente devo cercare di “lasciar-essere Dio”, così com’è. Se Dio avesse un “perché”, fatalmente finirebbe con l’imporsi come una “ragione sufficiente”, una necessità, un calcolo sicuro. E i calcoli dividono. Mentre, come tutto il creato che da Lui deriva, rosa compresa, Egli accade, “fiorisce poiché fiorisce”. Anzi, Lui è il Mistero stesso che presiede alla fioritura. E la Missione che ne deriva, dovrebbe semplicemente essere l’espressione di questa fioritura. Una fioritura sempre in atto, un “actus purus”, un atto puro, un amore che “arde ma non si consuma”, come un roveto ardente, scrive l’Autore sacro (Es 3,3) per descrivere Dio.
Certo, la distanza dei ragazzi dalle categorie occidentali è enorme, il loro background filosofico è povero, ma il punto è che non si tratta di capire, di dedurre o di fare qualcosa, quanto di “lasciar-essere Dio”, così com’è. E di lasciar-fiorire in essi la Grazia, ovvero la possibilità di riconoscere «un fondamento che non vuole imporsi come una ‘necessità’, bensì venire ‘scelto’ a motivo del carattere affidabile della propria dedizione» (Sequeri). Quella dedizione che stiamo ritrovando in Gesù così come raccontato nel vangelo di Marco. Lo stiamo leggendo per intero, anche tra le righe, affinchè il ministero di Gesù in Galilea fino a Gerusalemme, le sue parole, i suoi miracoli, la sua morte, ci rivelino qualcosa del mistero di Dio, “così com’è”. Mi accorgo che i ragazzi seguono, non si sottraggono, fanno domande, ma si stanno anche rendendo conto che un Dio così non li “pone al sicuro”, anzi, li espone ad una libertà inedita e affascinante. “Lo seguo perché mi libera”, mi ha detto uno dei ragazzi.