Il Forum sociale mondiale che si è svolto a Tunisi a fine marzo ha fatto emergere soprattutto l’attivismo della società civile locale contro il terrorismo. Dopo la rivoluzione sono nate nel Paese più di 17mila associazioni. DA TUNISI C’era aria di tempesta nei cieli di Tunisi, spazzati da violenti scrosci d’acqua e forti venti. Ma in città e nel campus universitario Fahrat Hached El Manar si respirava un’inattesa calma. A una settimana dall’attentato al museo del Bardo che lo scorso 18 marzo ha provocato la morte di 19 turisti (tra cui 4 italiani) e 3 tunisini, il Forum Sociale Mondiale si è svolto in una città che aveva innanzitutto voglia di “normalità”. Una città che non appariva in alcun modo “blindata” – con l’eccezione di domenica 29 marzo, durante la grande marcia a cui sono intervenuti diversi leader europei e mondiali -, così come non erano presidiati gli spazi del campus dove si è svolto il Forum dal 24 al 28 marzo. Almeno non in modo evidente e invasivo. E così il Forum Sociale Mondiale, flagellato soprattutto dal cattivo tempo, si è svolto proprio nel posto giusto e al momento giusto. Uno spazio di incontro e confronto soprattutto di organizzazioni del mondo nordafricano e mediorientale che, con tutte le differenze e le divisioni del caso, erano lì a testimoniare il loro «no» al terrorismo e a discutere di percorsi di libertà, democrazia, giustizia e uguaglianza. “Diritti e dignità” sono stati i fili conduttori di questo grande evento che, nonostante l’attentato al Bardo, ha richiamato a Tunisi circa 4300 organizzazioni, che hanno animato oltre mille workshop sui temi più svariati. Settantamila i partecipanti, in rappresentanza di 120 Paesi, secondo gli organizzatori. Probabilmente parecchi meno, anche se non sono state moltissime le defezioni. «Non possiamo e non dobbiamo avere paura», ripetevano i molti giovani tunisini (e non solo) che affollavano il campus. Sono stati loro, i giovani – insieme alle donne – i veri protagonisti di questo Forum, che è sempre meno mondiale per partecipazione e anche per slancio, ma che significativamente si è svolto nelle ultime due edizioni a Tunisi. Aprendo a questo mondo nordafricano degli spazi di liberta, espressione, confronto e ascolto che forse non sono ancora così scontati. Particolarmente significativa quest’anno era la presenza di una folta delegazione algerina: circa 1200 persone, in gran parte studenti, arrivati con autobus … del governo! Una delle tante contraddizioni di questo Forum. D’altra parte, questi ragazzi non avrebbero mai potuto permettersi di uscire dal loro Paese, anche solo per andare nella vicina Tunisia, per confrontarsi con giovani provenienti da tutto il mondo: un’occasione quasi unica. La presenza di tanti gruppi, soprattutto di base, ha mostrato innanzitutto la ricchezza delle differenze, ma anche i contrasti ancora presenti in questo mondo, che in fondo non è così monolitico e non può essere troppo velocemente etichettato come arabo-musulmano. Sia perché non è esclusivamente musulmano, sia perché, già nella sola Tunisia, la maggior parte della popolazione è di origine berbera, con una storia di oltre tremila anni e varie dominazioni, che hanno lasciato un’impronta e anticipato l’occupazione arabo-musulmana. Per non parlare delle dinamiche della storia recente, che hanno plasmato in modo diverso le società da Paese a Paese… In Tunisia, ad esempio, diversamente dalla vicina Algeria ancora molto chiusa su se stessa, e dalla Libia sprofondata nel caos più assoluto, la società civile si è conquistata spazi significativi di presenza e azione. «Dopo la “rivoluzione” che ha messo fine al regime di Ben Ali sono nate in Tunisia più di 17 mila associazioni», dice Ahmed, che sta partecipando a un workshop sul Programma di appoggio alla società civile (Pasc), risultato di un’ampia consultazione, finanziata dell’Unione Europea e realizzata tra più di 200 espressioni della società civile tunisina e 60 partner tecnici e finanziari, comprese alcune organizzazioni internazionali e le autorità tunisine, che ha avuto luogo in 20 governatorati nel 2012. «Questo fiorire di associazioni – continua – ha contribuito a vivacizzare la vita sociale, culturale e anche politica, ma al tempo stesso c’è stata una sorta di “banalizzazione” dell’associazionismo. Molto probabilmente, col tempo, ci sarà una selezione “naturale”. Intanto, però, questo attivismo dimostra che c’è una grande sete di libertà e molta voglia di impegnarsi. Bisogna però saperle gestire». «La società civile tunisina – incalza Fatma – è molto variegata e vivace. E penso che abbia in sé gli anticorpi per reagire al terrorismo. Non possiamo sprecare l’occasione che ci è stata data dalla rivoluzione. Certo, ci sono differenze tra coloro che vivono a Tunisi o, più in generale, in città, e quelli che abitano nelle zone rurali. Molti di loro si sentono abbandonati e marginalizzati. Il tasso di disoccupazione, specialmente tra i giovani, è elevatissimo. E non ci sono progetti o iniziative dello Stato per migliorare la situazione. Questo crea grave disagio e frustrazione. Ma in generale tutti noi vogliamo la pace». Frej Mathlouthi vive a El Hencha, 230 chilometri a sud di Tunisi, nei pressi si Sfax. Qui ha fondato l’Association culturelle échanges et loisirs (Associazione culturale di scambi e ricreazione) che si rivolge specialmente ai giovani. «Al di fuori delle città – ammette – manca tutto. Soprattutto la cultura. Gli integralisti sostengono che bisogna “riconvertire” la gente. Dicono che si deve combattere per ricreare l’antico califfato. Tanti ragazzi, che non hanno istruzione, lavoro e prospettive, si lasciano attrarre da questi discorsi. Io stesso, quand’ero giovane, sono stato molto affascinato dalla propaganda religiosa e anti-occidentale. Poi sono andato in Occidente a studiare e mi sono reso conto anche lì c’erano dei valori positivi e molte cose buone. Conosco i rischi di questo indottrinamento. E per questo, insieme ad altri, abbiamo creato un’associazione culturale per evitare che i giovani entrino in questo ciclo infernale. Penso che la letteratura, il cinema, il teatro, e la cultura in generale, siano il principale strumento per lottare contro i pregiudizi ed evitare il pericoloso mélange tra religione-politica». Un altro importante baluardo contro le derive fondamentaliste in Tunisia sono le donne. «Siamo molto attive e militanti nella società – dice Fatma – e rappresentiamo il pilastro della famiglia. Lavoriamo e siamo istruite. Credo che il futuro pacifico di questo Paese dipenda molto da noi». Fatma è una giovane interprete professionista. Al Forum è venuta per contribuire volontariamente, insieme a centinaia di altri giovani, alle traduzioni per i molti partecipanti che non maneggiano l’arabo. Ma è qui anche per testimoniare la sua militanza di donna e di tunisina e, infatti, sta partecipando a un workshop sulla transizione democratica nel Maghreb organizzato dall’“Organizzazione tunisina per lo sviluppo sociale”: «Non c’è paura nella società civile tunisina nei confronti del terrorismo – afferma -. C’è un generale senso di rifiuto nei confronti di questi terroristi che colpiscono innanzitutto il nostro Paese, il nostro popolo. Siamo dispiaciuti e sconcertati per l’uccisione dei turisti stranieri. Ma vogliamo anche dire che la Tunisia non sono i jihadisti. Siamo un Paese accogliente, che sta facendo un percorso faticoso, ma positivo, per consolidare la democrazia». Houda Mzioudet, invece, è giornalista e ricercatrice universitaria. E prova ad andare più a fondo: «Qui in Tunisia, alcuni giovani sono affascinati dal discorso jihadista. Sono senza prospettive e senza speranza, disincantati di fronte alla rivoluzione tunisina e delusi dalle persone che stanno al potere. Ecco allora che trovano nella tentazione jihadista una specie di scorciatoia per ottenere qualcosa subito, per dare senso alle loro vite. Ma complessivamente la società tunisina rifiuta la violenza e il terrorismo. E lo ha dimostrato anche nella manifestazione del 29 marzo, quando la gente è nuovamente scesa in piazza numerosa e compatta». Houda, che è un’esperta della situazione della Libia, dove ha vissuto a lungo finché la situazione non è diventata troppo pericolosa, non sottovaluta l’influenza nefasta che il Paese vicino esercita sulla Tunisia. «Le storie dei due Paesi e dei due popoli sono molto legate. È ovvio che la totale destabilizzazione della Libia abbia ripercussioni molto negative innanzitutto sui Paesi vicini. I tunisini sono ancora traumatizzati dalla guerra civile in Algeria e dalle sue conseguenze legate alla creazione di gruppi alqaedesti. Ora si aggiunge il terrorismo di Isis sulla frontiera dalla Libia. Bisognerebbe che tutti, a partire dai Paesi arabi, si assumessero le proprie responsabilità e si contrapponessero seriamente all’espansione del terrorismo islamista, che colpisce innanzitutto i musulmano. Ma vedo che le agende di questi Paesi, così come quelle dei Paesi occidentali, sono dettate da altre priorità. La Tunisia sta cercando di reagire. Ma non deve essere lasciata sola».