Lingua madre
I Bengalesi sono appassionati della loro lingua e dei loro poeti. Il 21 febbraio si celebra la giornata dei “martiri della lingua”, uccisi nel 1952, durante manifestazioni per impedire l’imposizione dell’urdu come unica lingua nazionale; da allora prese forza il movimento che è sfociato nell’indipendenza dal Pakistan. Con gli anni, l’ONU ha accettato di proclamare quella data come “giornata della lingua madre”, a onore e difesa di tutti i linguaggi che si usano nel mondo. Anche i cristiani sentono molto questo amore linguistico, compresi – sembra – gli aborigeni per i quali la lingua madre è tutt’altra: si uniscono al coro di elogi del bengalese, con molta – almeno apparente – convinzione. E la Chiesa ha accolto questo fatto culturale preparando una liturgia speciale per quel giorno. Si legge, come prima lettura della Messa, la storia dei sette fratelli Maccabei, che si lasciano uccidere per rimanere fedeli alla legge dei loro padri – implicando che i martiri della lingua siano stati come loro. Si legge s. Paolo, “nulla, neppure la morte ci può separare dall’amore di Cristo” – implicando che neppure la morte ci separa dall’amore per la nostra lingua. Si legge il Vangelo con le parole di Gesù “non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima” – implicando che la fedeltà alla propria lingua sia salvezza dell’anima. Si prega per ringraziare di una lingua così bella, e per chiedere che venga conosciuta e usata appropriatamente.
Il bengalese davvero è una bella lingua, ricca, sonora, dolce, e questo amore per la lingua e la cultura mi commuove. Ma sinceramente gli accostamenti biblici mi lasciano molto perplesso.
E mi chiedo anche: quando gli aborigeni, ancora ufficialmente inesistenti nelle Carta Costituzionale del Bangladesh, vedranno riconosciute la loro esistenza e le loro lingue?
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