Alla «Mission Fest» del Pime a Mascalucia (Ct) i racconti di Charlene, Sekou, Baldé. Guerre, persecuzioni religiose, viaggi inumani e un’idea sempre più concreta: i morti nelle traversate sono l’inizio doloroso di un mondo nuovo
da Mascalucia (Ct)
Charlene fatica molto a trattenere le lacrime, seduta vicino me nella pausa pranzo del Mission Fest 2015 (“Dalla parte dei poveri”) al Pime di Mascalucia (Ct). È in Italia da due mesi ed era su quel barcone in cui 40 persone sono morte nella stiva al largo di Lampedusa per le esalazioni dei gas di scarico di un impianto difettoso. È passata sopra diversi strati di cadaveri, ha visto la morte in faccia prima di poter uscire all’aria aperta. Il giovane marito invece è rimasto là sotto, insieme a tutti quelli cui con la forza era stato impedito di uscire, nel timore che la carcassa del mare potesse capovolgersi. Erano ivoriani come loro, e pachistani – dice Charlene – tutti cristiani, perché alla partenza in Libia i profughi musulmani erano stati stipati al livello superiore esterno, più sicuro.
Charlene e il marito erano fuggiti perché in Costa d’Avorio non potevano più starci: morire in patria o cercare di sopravvivere all’estero. Lui era stato membro dei giovani sostenitori del presidente Laurent Gbagbo, sconfitto dal rivale Alassane Ouattara con l’aiuto della Francia al termine di una sanguinosa guerra civile nel 2011. Non c’è processo di riconciliazione nazionale in Africa dopo un conflitto. Chi perde è morto.
Anche Sekou Jallow dal Gambia raccontato una storia simile. Lui era troppo giovane per essere coinvolto, ma alcuni suoi familiari nell’esercito erano tra i colpevoli di un fallito colpo di stato. È scappato prima in Mali e da lì in Niger e in Libia. Sempre incontrando una guerra dopo l’altra. “La traversata del deserto”, dice, “è stata più spaventosa della successiva esperienza nel Mediterraneo. Ci abbiamo messo quindici giorni con pochissima acqua. Il tizio che ci accompagnava ce ne dava solo una tazza di tanto in tanto. Quando il veicolo si fermava in mezzo al deserto eravamo due o tre ore sotto il sole a picco”. Sekou ha rimediato alcuni soldi in Libia finché qualcuno ha accettato di metterlo su un barcone: “Siamo rimasti subito senza carburante e siamo stati soccorsi dalla marina militare italiana. Se gli italiani non si spingessero fin quasi sulle coste libiche con le loro missioni di soccorso, ci sarebbero migliaia di morti”. Quel che Sekou aggiunge nella conversazione personale ha dell’incredibile: “Non ci sono libici al comando dei barconi. Chiedono ai profughi se qualcuno è capace di pilotare. Altrimenti prendono qualche ragazzo e gli fanno vedere per una mezza giornata come si fa. A loro basta prendere i soldi. Non gli interessa niente di quello che poi succede in mare”.
I ragazzi africani poco più che ventenni che parlano alla Mission Fest hanno parole di sconfinata gratitudine per il nostro Paese e non esitano a riconoscere che ci devono la vita. Tra l’altro è il 4 ottobre, Festa di San Francesco d’Assisi, patrono d’Italia. I giovani siciliani intervenuti alla manifestazione nel teatro del Pime a Mascalucia, sulle pendici dell’Etna, sono persone già sensibili al problema ed impegnati in vario modo. Ma sottolineano l’abisso tra le narrazioni asettiche e politicamente corrette dei telegiornali e quelle dei protagonisti in carne e ossa che parlano anche coi silenzi, l’imbarazzo, la commozione e le lacrime. Nel pomeriggio mi accosta un giovanotto alto e robusto: “Sono un commercialista pakistano. Qui non ho lavoro. Ma voglio dirti che sono proprio riconoscente di quello che fate voi e Papa Francesco, che sempre richiama all’accoglienza”. Il suo nome sul cartoncino di riconoscimento è Sultan.
È incredibile come anche la “religione” costringa ragazzi ventenni a sofferenze atroci. Baldé Saliou, 23 anni, senegalese, dice che suo papà è morto prima che lui nascesse. È morto per lui. Il papà era musulmano, ma aveva sposato una ragazza cattolica. I parenti l’hanno ucciso. Cresciuto in età anche Baldé è divenuto un obiettivo: “Per salvarmi sono andato a studiare in Marocco. Ho fatto due anni di giurisprudenza. Ma neanche lì ero abbastanza distante. Ho cercato la salvezza prima in Libia e poi in Italia. Perché mi è capitato tutto questo? Non sono anch’io solo un frutto dell’amore genuino di un uomo e di una donna?”.
Nel pomeriggio i partecipanti alla Mission Fest 2015 lavorano a gruppi e poi condividono le riflessioni. Non ci sono serie obiezioni all’accoglienza in Sicilia, visto che qui sulla porta dell’Europa si tratta essenzialmente di salvataggio in mare, una questione di vita o di morte per cui l’intervento è imposto dal buon senso prima ancora che dalle convenzioni internazionali. Ma si sente il desiderio di studiare i popoli e le culture. Di conoscersi e capirsi meglio. Di farsi prossimo. L’emigrazione infatti non è un tema o un problema o un oggetto di dibattito. Sono persone in carne ed ossa con traumi che segneranno il resto della loro giovane vita. Nelle diversità culturali e religiose non si cerca una composizione impossibile nei presupposti. Ma si condividono l’esperienza di Dio e le opere buone.
Nel momento finale della discussione si insinua un sospetto sempre più concreto: che per la sua vastità e consistenza il doloroso processo oggi in atto significhi la gestazione di un modello di comunità internazionale inedito, in cui i popoli prima colonizzati e poi neo-colonizzati e saccheggiati delle proprie risorse non accettano più di essere tali, ma esigono piena partecipazione ed uguaglianza. I morti delle traversate sono probabilmente il prezzo e le vittime che ogni rivoluzione inevitabilmente esige.