L’attivista ugandese Vanessa Nakate, così come molti altri giovani militanti per il clima, denunciano il sostanziale fallimento del Conferenza di Sharm el-Sheikh in Egitto. Salvando solo il Fondo per perdite e danni. Che però va concretizzato subito
«I mari che si innalzano non aspettano. La siccità non aspetta. La carestia non aspetta. Siamo fuori tempo massimo! Dobbiamo avere un accordo chiaro per istituire una struttura finanziaria per le perdite e i danni qui alla Cop27». È il commento a caldo rilanciato sui social da Vanessa Nakate, giovane ugandese attivista per il clima che, come molti altri, non nasconde la sua delusione per gli scarsi risultati ottenuti dalla COP27, la conferenza delle Nazioni Unite che si è chiusa ieri a Sharm el-Sheikh.
Del resto, la stessa presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha fatto notare che «abbiamo trattato alcuni sintomi ma non curato il paziente dalla febbre. Cop27 segna un piccolo passo verso la giustizia climatica ma serve molto di più per il pianeta». Lo sa bene chi, come Vanessa Nakate vive in Paesi che già pagano un prezzo altissimo della crisi climatica, pur impattando in maniera molto marginale all’emissione di CO2. Tutto il continente africano, ad esempio, contribuisce solo per il 3% alle emissioni totali di gas serra. Nonostante questo, è il più vulnerabile alle conseguenze devastanti dei cambiamenti climatici e il più fragile per quanto riguarda in particolare il settore agricolo, visto che il 90% dell’agricoltura alimentata dalla pioggia a livello globale è praticata nell’area subsahariana. Eppure anche in Egitto il grido della terra e dei popoli si è scontrato con un muro di silenzi e di interessi.
La situazione, tuttavia, è sempre più urgente e drammatica. Anche per questo Nakate, insieme a molti altri attivisi, ha chiesto che venga creato subito il Fondo “loss and damage”, ovvero per pagare “perdite e danni” in particolare dei Paesi più colpiti dalla crisi climatica, che spesso sono già molto poveri e fragili. Questo fondo rappresenta l’unico vero obiettivo raggiunto dalla COP27. Che adesso, però, va concretizzato. Anche perché si tratta di una battaglia portata avanti da quasi trent’anni da diversi Paesi, che ora chiedono che il fondo diventi davvero operativo, cosa che non succederà prima di due anni.
«L’Africa ha bisogno di giustizia – ha insistito Vanessa Nakate -. I nostri leader si devono impegnare a non investire più nei combustibili fossili, in carbone, petrolio e gas e a finanziare la transizione verso le rinnovabili, affrontando la povertà energetica del continente».
Dall’Uganda alle Filippine, un’altra giovane attivista per il clima, Mitzi Jonelle Tan, ha fatto sentire la sua voce nei giorni della COP27 per ribadire che «abbiamo bisogno che tutti facciano pressione sui loro leader nazionali e globali affinché tengano conto della crisi climatica. Dobbiamo assicurarci che le emissioni di anidride carbonica siano conteggiate correttamente. Dobbiamo assicurarci che i Paesi del Nord del mondo stiano uscendo dall’industria dei combustibili fossili e fare pressione sui loro governi affinché abbiano finanziamenti per il clima per il Sud del mondo». Portavoce di Youth Advocates for Climate Action Philippines (YACAP, i Fridays For Future del suo Paese) Mitzi Jonelle Tan è molto attiva anche nella rete globale dei giovani attivisti con un occhio di riguardo per le sfide dei Paesi e delle regioni maggiormente colpiti.
«Quando si tratta della crisi climatica – ha dichiarato Camilla Tham del Natural History Museum – è così difficile perché sembra che ci siano così tante sfide davanti a noi. Ci sono già state così gravi perdite di vite umane, sfollamenti di persone e insicurezze a causa della crisi climatica in tutto il mondo. In altri luoghi, sappiamo che il tempo per trovare nuove soluzioni e mitigare i cambiamenti climatici sta per scadere. Le persone che occupano posizioni di potere, che possono guidare il cambiamento, semplicemente non lo fanno o non lo fanno abbastanza velocemente».