Paolo di Monte Siro
Prete diocesano, p. Paolo Ciceri, originario di Monte Siro (Milano), arriva in Bangladesh poco dopo l’indipendenza, nel 1973, e lo mandano a Beneedwar alla scuola del più anziano p. Giulio Schiavi e insieme a p. Emanuele Meli. E’ una missione vastissima, e dopo pochi anni l’area di Chandpukur viene eretta in missione autonoma e affidata a lui, che ci mette anima e corpo per fondarla e permettere agli aborigeni di stare tranquilli sulla propria terra. E’ là che, per il suo zelo travolgente, la sua passione per la gente, le sue iniziative vulcaniche e il lavoro senza sosta l’amico p. Emilio lo definisce scherzando “l’ultimo dei grandi missionari dell’Asia”. Poi una parentesi a Ruhea, nel nord, prima di approdare a Rajshahi, 25 anni fa. La presenza cristiana in questa città sul Gange è ancora poco più che simbolica; la chiesa cattolica ha un piccolo ufficio della Caritas, e una cappella accanto ad un modesto ostello per ammalati, che fanno parte della parrocchia di Andharkota, villaggio aborigeno a pochi chilometri di distanza. P. Paolo però si rende conto che qualcosa sta cambiando. Aborigeni santal, mahali, paharia, orao perdono le loro terre e approdano in città come spazzini, facchini, guardie notturne. Si disperdono, vivono in baracche e verande, sono preda dell’alcool e dello sfruttamento. Con P. Faustino Cescato e suor Silvia Gallina incominciano un’avventura che andrà lontano. Comprano terre e vi costruiscono villaggi con casette in terra dove collocare la gente e formare nuovi agglomerati di popolazioni diverse. Fra difficoltà enormi l’esperienza cresce, e migliora. La gente riprende dignità, i figli vanno a scuola, le casette e l’alimentazione migliorano e di conseguenza migliora la salute di tutti. P. Paolo è esigente: chi non sta alle regole se ne va. Ma ben più che le sue sfuriate e i suoi castighi la gente percepisce il bene che vuole loro. Non manca chi lo imbroglia, chi lo delude o lo tradisce; chi lo accusa di essere un ingenuo. Ma P. Paolo vede anche i buoni risultati e tira avanti. Giovani che si laureano, famiglie che vivono unite, fede cristiana frutto – come dice lui – di “tonnellate di catechesi…”
Ora, a quasi 70 anni, p. Paolo con la solita irruenza spiega alla sua gente che deve cambiare: “Devo lasciare tutti questi impegni, e mettere in pratica altre doti che finora non ho espresso in pieno. Basta soldi, conti, progetti, costruzioni…Voglio dedicarmi allo studio – ho portato dall’Italia 40 chili di libri! Voglio impegnarmi nella pastorale delle famiglie. Voglio pregare. Anche s. Camillo, dopo tanto lavoro per i malati si è ritirato a pregare e prepararsi a morire.” Dispiace a tutti che se ne vada, e qualcuno ha protestato con il vescovo; ma la maggioranza lo capisce e gli augura di fare ancora tanto, in un’altra diocesi, Dinajpur, e con un altro stile.
Come Paolo di Tarso, Paolo di Monte Siro ha fondato tante comunità e lascia a Rajshahi migliaia di fedeli, una parrocchia cattedrale che presto verrà divisa in tre, opere sociali, vari istituti di religiose che in questi anni hanno aperto scuole, ostelli, dispensari. Come un Mosè del terzo millennio, ha dato terre e identità a gente che non aveva le prime e stava smarrendo la seconda. E’ stato anche un poco Giona. E ora vuole essere s. Camillo. Auguri.
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