IL COMMENTO
C’è del sangue versato ovunque. Perché sciupare Dio significa sciupare l’uomo
La conta dei morti, le dichiarazioni e i commenti ai fatti, le analogie e le interpretazioni riempiono le pagine dei giornali, reali e virtuali, nel tentativo di dare un senso al sacrificio di chi è morto, di lenire il dolore per le perdite subite, e raccoglierci attorno a qualcosa di condiviso, una speranza comune, un futuro possibile. Non sarà semplice gestire questi fatti di morte, e ricominciare, senza poter ricorrere al trascendente, a Dio, così spesso evocato, e fatalmente squalificato, dagli stessi terroristi che agivano, uccidevano gridando “Allah è grande!”. Se si sciupa il nome di Dio si sciupa anche il destino dell’uomo. In questa guerra che non ha confini, che sembrava relegata in alcune aree del pianeta, ma che in realtà dilaga dappertutto, dobbiamo chiederci qualche perché.
Nel frattempo se ne va la fiducia tra di noi, vittima tra le vittime. Cresce l’allerta, scattano le innumerevoli procedure di sicurezza, tutti costretti in gabbie solo apparentemente sicure ma, inutile negarlo, siamo più vulnerabili di prima. Senza fiducia reciproca si è vulnerabili in ogni istante, in ogni luogo. Questa è condanna per tutti. Senza tale reciproca fiducia non c’è più nemmeno libertà, vittima tra le vittime. A breve, forse già da ora, non si potrà più parlare di occidente libero e di fronte a tanta improvvisa e barbara violenza non si hanno risposte. Solo alcune preoccupazioni che, se condivise, possono aiutarci a pensare.
La prima: eviterei di interpretare quest’ultimo fatto e più in generale il fenomeno del “terrorismo islamico” solo come un problema religioso. Certamente v’è fanatismo, indottrinamento, ma da più parti è stato detto che questo non è l’Islam. Una simile lettura ci porterebbe alla chiusura delle frontiere, all’impossibilità di una convivenza civile in città e paesi dove le razze e le religoni, di fatto, si confondono e contaminano, secondo una naturale quanto inevitabile pluralità. Una lettura dei fatti ridotta all’ideologia religiosa, ci porterebbe ben presto ad uno scontro di civiltà o all’impossibilità di vivere ciascuno secondo la propria fede fino a dover censurare ogni simbolo e ogni riferimento al trascendente perché considerato gravido di intransigenza e violenza, ma questo non rende giustizia, ne a Dio ne agli uomini. Dio non può essere ridotto alle armi dei terroristi e non può essere semplicemente identificato con l’intransigenza e la violenza. Qui la prima vittima è Dio. Vittima dell’uomo che non sa: con Dio ne va della nostra libertà e del nostro destino.
La seconda: c’è del sangue versato ovunque! La conta dei morti ci impegna su tutti i fronti. A Parigi ma ben di più in Siria, in Iraq o nello Yemen, dove per più volte negli ultimi mesi le bombe della coalizione saudita sono cadute su persone inermi che stavano celebrando dei matrimoni. Senza contare le centinaia di migliaia di morti a causa del conflitto in Siria e dintorni! Ciascuna delle vittime è monito, voce, pronta a dirci che non si potrà ricorrere ancora alla forza delle armi. La violenza è dilagante. Alimenta se stessa e molti altri traffici illeciti. D’armi e di persone. Temo che la necessità di strategie di difesa, pur legittime, ci farà cadere nell’ennesima escalation di violenza secondo la legge del più forte, ormai disposti a tutto perché, nella totale mancanza di fiducia e nella totale incapacità di comunicare, tutti sono nel frattempo diventati nemici. Si verserà altro sangue, ovunque. Tutti vittime. Già cadute o potenzialmente tali in un futuro non lontano.
La terza considerazione è una speranza. Una speranza politica ovvero la possibilità di un’intesa sugli interessi economici in gioco in aree del mondo che da decenni sono teatro di guerre per procura. Il Medio Oriente in primis. Perché mentre sui nostri giornali scorrono le dichiarazioni di Putin e di Obama, di Holland e di Cameron, altrove scorre sangue. E sappiamo dalla fisica dei vasi comunicanti che, prima o poi, ciò che è versato insistentemente da una parte, emergerà dall’altra. Tutti hanno il diritto di giocare o assistere ad una partita di calcio, così come di celebrare le proprie nozze con gli amici senza temere le bombe di una qualsivolgia coalizione, fosse pure di pace. Dovranno dirci quali sono gli interessi in gioco. Dovranno giocare a carte scoperte o darsi un’autorità super partes che aiuti i contendenti a dividersi la torna. Un arbitrato internazionale, una sorta di ONU della finanza e dell’economia che aiuti ad equilibrare la fame di chi siede al tavolo di questo mondo. Ma che statura politica è necessaria? Che profilo un leader, un popolo, devono avere per saper costruire la pace? Che Dio deve esserci a monte perché un credente diventi un beato “operatore di pace”?