L’OPINIONE
Anche di fronte alle immagini di questi giorni comandano le armi, chi le produce, e non la diplomazia. E si perdono le vite, si perde la cultura, si perdono tante cose
Che la guerra in Siria, come sui diversi fronti di un Medioriente devastato, abbia protagonisti vicini e lontani è noto a tutti. Non si spiegherebbe altrimenti l’attuale braccio di ferro fra Russia e Stati Uniti, non oltre oceano o oltre la vecchia cortina, ma sul fronte siriano. È di qualche giorno fa la notizia di una nuova fornitura di armi degli Stati Uniti all’Arabia Saudita del valore di un miliardo di dollari, armi che serviranno contro l’avanzata dello Stato islamico (Is), ma vendute a un Paese che si ritiene sostenga l’Is. Allo stesso modo, per fronteggiare «la minaccia terroristica, che ha raggiunto una dimensione senza precedenti in Siria e nel vicino Iraq» (raccontano a Mosca), è di questi giorni la notizia che la Russia, amica del regime di Assad, ha inviato a Damasco consiglieri militari per supervisionare la consegna di materiale bellico. A ruota, Francia e Gran Bretagna, per assecondare la strategia di Washington che vuole invece detronizzare Assad, hanno deliberato incursioni aeree in Siria, sempre per arginare l’avanzata dell’Is ed eliminare eventuali minacce terroristiche.
Sono strategie nuove? No! Già l’8 agosto 2014 una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti aveva cominciato a bombardare postazioni del gruppo islamico in Iraq e Siria fino a compiere nei tre mesi successivi circa 800 raid aerei. Risultato? Gli ottimisti si affrettano a controbattere che se non ci fossero stati nemmeno quei raid l’Is sarebbe avanzato ben oltre le attuali posizioni. Ma la domanda sull’efficacia di questi interventi rimane; al punto che Frank-Walter Steinmeier, ministro degli esteri tedesco, avrebbe chiesto ai russi di evitare l’invio in Siria di uomini e materiale militare, e a Francia e Gran Bretagna di non intervenire con i raid, per favorire una soluzione condivisa e diplomatica del conflitto.
Il conflitto siriano ha prodotto 250.000 vittime e 12 milioni di profughi. Comandano le armi, chi le produce, e non la diplomazia. In questa vicenda l’Europa non è unita. Questo è il dramma nel dramma. E, ancor più grave, i diversi interessi geopolitici mortificano qualsiasi possibile risoluzione dell’Onu, la cui capacità di intervento è nulla. Il suggerimento molto sensato del ministro degli esteri tedesco mi pare indicativo di una posizione di mediazione alternativa alla contrapposizione tra Putin e Obama. L’Europa però conta se unita. Perché non vincano le armi, ma prevalga la diplomazia.
È il profitto che muove l’Is: con il contrabbando di petrolio e di reperti archeologici, con il sequesto e la messa all’asta di ostaggi, con il controllo di vaste aree geografiche ignorando qualsiasi sovranità nazionale e sequestrando banche e conti bancari nei territori occupati. Secondo il leader curdo Masoud Barzani l’Is guadagna fino a sei milioni di dollari al giorno.
In questo scenario cadono, finora senza risultato, gli appelli del Papa: “La pace non è un prodotto industriale: la pace è un prodotto artigianale. Si costruisce ogni giorno con il nostro lavoro, con la nostra vita, con il nostro amore, con la nostra vicinanza, (…). L’industria delle armi: questo è grave! I potenti, alcuni potenti, guadagnano nella vita con la fabbrica delle armi (…) E’ l’industria della morte! E guadagnano (…) Si guadagna di più con la guerra! Si guadagnano i soldi, ma si perdono le vite, si perde la cultura, si perde l’educazione, si perdono tante cose”.
Proprio quello che accade nel conflitto siriano per milioni di profughi.