«All’origine di questa nuova tragedia c’è l’espansionismo turco, mentre il presidente azero soffia sul nazionalismo perché teme una rivoluzione di velluto in patria». La denuncia di Pietro Kuciukian, console onorario d’Armenia e cercatore dei “giusti” nei genocidi
Quella che si sta drammaticamente consumando nel Caucaso «è una guerra di bieco nazionalismo ed espansionismo, che, ancora una volta, punta a spazzare via la popolazione armena, in questo caso dal Nagorno Karabakh». È forte la denuncia di Pietro Kuciukian, console onorario d’Armenia in Italia ma anche co-fondatore con Gabriele Nissim della ong Gariwo e instancabile cercatore di quei Giusti che, al tempo dei genocidi, si opposero al male assoluto in nome della propria coscienza. Un impegno che è valso anche a lui l’onorificenza di “Giusto”, con un albero piantato nel 2003 all’interno del Giardino dedicato, a Milano, a figure esemplari di resistenza morale di ogni parte della Terra.
L’accusa di Kuciukian si riferisce al conflitto scoppiato a fine settembre tra Armenia e Azerbaigian intorno al Nagorno Karabakh, regione a maggioranza armena che dal 1992 si è autoproclamata indipendente – senza il riconoscimento internazionale – e al centro di scontri tra i due Stati confinanti, sospesi da un cessate il fuoco nel 1994 che sancì la vittoria armena, mai resa definitiva però da un vero accordo di pace. Tregua rotta ora, con l’ingresso a gamba tesa della Turchia che «è intervenuta con la violenza al fianco dell’Azerbaigian».
Ma facciamo un passo indietro: perché il Nagorno Karabakh (in armeno Artsakh) si sente armeno? «Si tratta di una regione montagnosa storicamente a maggioranza armena che è sempre stata autonoma, da 2000 anni. I tatari erano più interessati alle pianure, poi la zona fu sotto protettorato persiano e poi russo, fino alla rivoluzione russa e alla conquista bolscevica nel 1920», racconta Kuciukian, che proprio a questo pezzo del Caucaso meridionale ha dedicato il libro Giardino di tenebra (Guerini). «Fu Stalin ad assegnare le regioni del Karabakh e del Naxchivan all’Azerbaigian sovietico, secondo il disegno del “divide et impera” che tendeva a spezzare i nazionalismi all’interno del territorio sovietico».
Fin dalla nascita dell’Urss, tuttavia, gli abitanti dell’oblast’ autonoma del Nagorno Karabakh continuarono a chiedere di unirsi all’Armenia, e con il disfacimento dell’Unione sovietica sancirono la propria indipendenza attraverso un referendum. «Ma l’Azerbaigian non accettò la separazione. Dopo le tensioni etniche che già negli anni precedenti si erano scatenate dando origine a gravi violenze, come i terribili pogrom anti armeni a Baku e Sumgait, la proclamazione della repubblica del Nagorno Karabakh-Artsakh provocò l’inizio dei bombardamenti azeri. E così fu la guerra».
Ma perché, dopo una tregua – seppure a volte traballante – che dura da quasi trent’anni, l’Azerbaigian e la Turchia hanno deciso di rompere questo equilibrio proprio ora? Dopotutto, il presidente turco Erdoğan è già impegnato su fronti critici nel Nord della Siria, in Libia, nel Mediterraneo orientale…
«La Turchia – afferma Kuciukian – ha dimostrato in diversi contesti di volersi espandere: il progetto di Erdoğan è ancora ripristinare l’impero ottomano e perseguire l’ideale del panturchismo, quello che storicamente puntava al ricongiungimento di tutti gli Stati turcofoni al di là del Caspio. Ora, questa è un’opportunità importante per espandersi a est». Non solo. Ci sono anche motivi pragmatici stringenti: «Sia l’Azerbaigian che la Turchia hanno grossi problemi interni. A parte la gestione della pandemia di Coronavirus, Baku teme molto una rivoluzione di velluto sul modello di quella avvenuta proprio nella vicina Armenia, mentre Ankara è afflitta da una grave crisi economica: entrambi i Paesi, quindi, cercano il modo per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica su altri problemi, e la guerra – si sa – è un ottimo espediente per rinfocolare il nazionalismo».
Poco importa che poi, sul campo, all’ideale nazionalista si mescolino orrori come il richiamo al jihad contro i cristiani armeni, usato come giustificazione per il reclutamento da parte della Turchia di migliaia di miliziani estremisti siriani (già dalla metà del mese di settembre) che ora combattono nel Caucaso, come testimoniato da varie fonti internazionali. Con buona pace dell’islam moderato che è il vanto del presidente azero Aliyev (sbandierato anche durante la visita di Papa Francesco nel 2016) e passando sopra alle divisioni interne al mondo musulmano, visto che l’Azerbaigian è a maggioranza sciita mentre Ankara non smette di rilanciare con forza crescente la sua identità sunnita.
In ballo ci sono anche altri interessi, di portata regionale. Non lontano dalle zone di conflitto corre l’oleodotto che da Baku, attraverso la Georgia, arriva a Ceyhan in Turchia, mentre il South Caucasus Pipeline (SCP) rappresenta il primo anello di congiunzione del Corridoio Meridionale del Gas, che dovrebbe sboccare sulle coste pugliesi. «Anche la Russia è coinvolta nella questione, visto che vorrebbe vendere il suo petrolio attraverso il Mar Nero», aggiunge Kuciukian. E proprio da Putin, che ha più volte richiamato le parti a un cessate il fuoco, potrebbe arrivare una svolta decisiva: la Russia è storicamente l’alleato-protettore dello Stato armeno, anche se oggi i suoi legami – in particolare in termini di vendite di armi – sono forti anche con Baku.
Difficile giungere a una soluzione negoziale. Se il Gruppo di Minsk, composto dalle diplomazie di Francia, Russia e Stati Uniti, nel quadro dell’Osce, chiede un “cessate il fuoco immediato” e l’Unione europea intima le parti in causa a “riannodare negoziati senza precondizioni” sotto l’egida appunto del Gruppo di Minsk, ora l’Armenia chiede che in queste trattative sia incluso lo stesso Nagorno Karabakh, di cui quindi dovrebbe essere riconosciuta l’indipendenza. Una richiesta che l’Azerbaigian non è certo pronto ad accettare.
E così, mentre a parlare continuano ad essere le armi, la situazione della popolazione civile si fa ogni giorno più drammatica. A oggi circa metà degli abitanti del Nagorno Karabakh – il 90% delle donne e dei bambini – cioè circa 70-75 mila persone, hanno dovuto lasciare le loro case e fuggire in Armenia. E a soffrire sono anche i civili delle zone azere colpite dal fuoco armeno. «Non possiamo restare a guardare, dobbiamo alzare la voce e far sapere all’opinione pubblica che questa tragedia non è così lontana. E ci riguarda».